lunedì 23 settembre 2024

La Grande Abbuffata: scorpacciate da paura (Pt.1: zombi)

La gola è il quinto vizio o peccato capitale e per gravità precede l’accidia e la lussuria. E a giudicare da quante favole o fiabe narrano di esseri puniti per la loro ingordigia, ha sempre colpito molto l’immaginazione umana. Nell’horror, è lo zombi la creatura che più di tutte correliamo all’idea di voracità. Nel folclore lo zombi appartiene alla tradizione coloniale haitiana, e indica semplicemente una persona soggetta al controllo mentale del bokor, il sacerdote, che ne detiene il “corpo astrale”, mentre il suo “cadavere” continua a vagare sulla terra per essere sfruttato come schiavo per i lavori più faticosi e degradanti; mentre il termine zombi, esistente in alcuni dialetti del Niger e del Congo, deve la sua diffusione a William Buehler Seabrook, un giornalista vissuto a cavallo fra '800 e '900, che lo utilizzò nel suo libro “The Magic Island” (ne abbiamo parlato qui), uno dei suoi incredibili racconti di viaggio. 
I primi film di zombi li rappresentavano proprio così, come vittime del voodoo, inermi davanti a forze aliene incontrastabili e che vengono usate dagli indigeni come forma di vendetta o riscatto sociale. 

Per esempio, in “Ho camminato con uno zombi” (“I Walked With A Zombie”) di Jacques Tourneur, 1943, ambientato nei Caraibi, un uomo sospetta che la moglie catatonica sia malata di mente, mentre tutti gli altri sembrano certi che il suo sia un caso di non-morte. Fu solo con George A. Romero, alla fine degli anni ‘60, che lo zombi al cinema si trasformò in un morto vivente, cioè in un vero cadavere risorto dalla tomba, sul corpo i segni dei traumi della morte e della decomposizione, che cerca di divorare qualsiasi cosa si muova. Per questo un film come “Il serpente e l'arcobaleno” (“The Serpent and the Rainbow”) diretto da Wes Craven nel 1988 sembra comparire fuori tempo massimo; tuttavia, questo film su un antropologo che si reca ad Haiti per verificare il supposto fenomeno dei morti viventi si distacca dal dramma familiare di Tourneur per proporre una riflessione politica più marcata (lo stregone voodoo è anche il capo della polizia segreta di François Duvalier, ex dittatore di Haiti). 

La vocazione politica, che in Craven e Romero trova compiutezza programmatica, è molto più evanescente nel cinema di Amando de Ossorio, eppure è innegabilmente presente. La quadrilogia (*) del regista iberico (che condivide con Romero l’impianto stilistico degli zombi lenti, anzi lentissimi) con la copertura del fantastico si pone in opposizione ideologica, se non politica, con il potere, in questo caso con la dittatura franchista. I resuscitati ciechi, ovvero i templari che di notte riemergono dalle tombe per uccidere, sono l’emblema di un orrore ciclico che affligge un paese cristallizzato nel tempo per via di un passato i cui risvolti, anche psicologici, affliggono ancora il presente. 
Il principale apporto all’immaginario zombesco dato dai posteri di Romero tuttavia non è ideologico, ma fisiologico. Lo zombi di “La notte dei morti viventi” (“Night of the Living Dead”, 1968) di Romero è una sorta di “segugio” cannibale animato dal puro istinto, o dal ricordo di essersi nutrito quand’era in vita, ma lo zombi che verrà dopo è dotato di facoltà superumane, cioè un’estrema velocità e forza, e qualche volta di intelletto (cosa a cui, per dovere di cronaca, lo stesso Romero aveva già pensato). 

Ma prima di continuare a parlare di cinema, dovremmo domandarci se esiste lo zombi o qualcosa di paragonabile allo zombi in natura. Nel saggio del 2020 “L’ordine nascosto. La vita segreta dei funghi”, l’autore Merlin Sheldrake spiega che “Un numero crescente di studi ha dimostrato che il comportamento degli animali è legato ai miliardi di batteri e funghi che vivono nel loro intestino e che in parecchi casi producono sostanze chimiche in grado di influenzarne il sistema nervoso.” Queste interazioni tra microbi e cervello, l’asse “intestino-cervello”, è l’oggetto di studio della neuromicrobiologia. Sheldrake parla di “funghi zombi” e di alcuni parassiti non fungini che sono in grado di entrare in simbiosi con un altro organismo e di manipolarne il sistema nervoso centrale tramite il rilascio di immunosoppressori, anfetamine, psilocibina e forse anche di un tipo di virus a cui, a differenza dell’insetto, sono immuni. Questa possessione è fatale per l’ospite, che diventa iperattivo e a volte ipersessuale anche se il suo corpo si sta disgregando, finché non viene del tutto consumato e disgregato affinché il fungo possa rilasciare le sue spore (**). Non ho usato il termine possessione a caso: esulando dal contesto scientifico, potremmo paragonare questo fenomeno alla possessione spiritistica di un medium (consenziente o meno), dando corpo all’ipotesi di Terence McKenna che le entità che popolano le visioni psichedeliche scatenate dalla DMT possano essere gli spiriti dei defunti.

I registi che immaginano gli zombi come il risultato di un’infezione da virus (non Romero, che non fornisce mai alcuna spiegazione dei fatti) trovano le proprie coordinate narrative in un fenomeno come quello descritto; altri autori, variando un poco, le trovano invece nel turbamento del regno vegetale, ma la morale da libello ecologista è la medesima: dallo stupro della natura viene sempre il male. Al primo tipo appartengono Danny Boyle (“28 giorni dopo” (“28 Days Later”), 2002) e Juan Carlos Fresnadillo ("28 settimane dopo" ("28 Weeks Later"), 2007). I loro sono zombi “evoluti” alla maniera descritta in precedenza, e per una ragione ben precisa: si tratta di persone malate, ma non ancora morte, ed è logico quindi che le loro funzioni motorie siano comparabili a quelle di una persona normale, e in più sovraeccitata fino ad avere accessi di rabbia incontrollabili. Nel primo film appena menzionato, a causare la trasformazione in zombi è un virus mutato a seguito di esperimenti condotti sugli animali, che si diffonde attraverso il sangue o la saliva dopo un'incubazione di pochi secondi; nel sequel, una nuova epidemia si diffonde a causa di una sopravvissuta che si rivela essere una portatrice sana del virus, ed è incentrato sulla ricerca della cura che un portatore sano, appunto, potrebbe aiutare a sviluppare. Del secondo tipo sono autori come il Jean Rollin di “Les raisins de la mort”, del ’78 (le persone si trasformano in zombi famelici per via di un pesticida sperimentale delle viti) e il Jorge Grau di "Non si deve profanare il sonno dei morti" (“Let Sleeping Corpses Lie”), del ‘74 (qui i pesticidi agricoli non infettano i vivi, ma risvegliano i morti). Quelli di Zach Snyder invece (“L'alba dei morti viventi” (“Dawn of the Dead”, 2004), remake del cult di Romero) sono “zombi corridori”, ma sono anche morti stecchiti: è questo, soprattutto, a colpire duro, oltre a un finale che non lascia alcuna speranza. 

C’è una linea di demarcazione molto sottile tra film di zombi e body horror che si è cominciato a oltrepassare sempre più spesso già a partire dagli anni ‘90. Credo che il primo body horror che io abbia mai visto sia proprio un film di zombi, “I, Zombie” di Andrew Parkinson, del 1998. Il protagonista Mark si ammala dopo essere stato attaccato e morso da una donna infetta che porta i segni di un morbo misterioso: mentre avviene il lento disfacimento fisico che lo trasforma in uno zombi, è cosciente di quello che sta accadendo e si mantiene razionale (prende le distanze dalla moglie che non vuole mettere in pericolo, prova rimorso per il fatto di uccidere per sopravvivere, eccetera). Almeno inizialmente si tratta di uno zombi evoluto: anche se il finale lascia intendere che a un certo punto anche le sue facoltà mentali saranno intaccate, il regista non ci concede di veder confermate queste premesse. Nonostante il tema e un’esposizione che non lesina neppure sui particolari più crudi, la narrazione riesce a mantenere una prospettiva interiore che ci fa appassionare al destino di Mark molto più che a quello del resto del mondo. Più tardi arriveranno esempi di body horror forse ancora più insostenibili, in cui nessun dettaglio della dissoluzione dei corpi ci viene risparmiato, tra necrosi, vermi e liquidi organici di ogni genere, film come “Tanatomorphose” (2012) di Éric Falardeau, “Contracted” (2013) di Eric England, “Starry Eyes” (2014) di Kevin Kölsch e Dennis Widmyer e “Contracted: Phase II” (2015) di Josh Forbes,che hanno diverse cose in comune ma anche sostanziali differenze, pur esprimendo tutti in varia misura una necessaria mutazione degli slasher anni‘70 e ‘80 dove chi fa sesso muore. 

Tanatomorphose” è una metafora della depressione, in cui l'infelicità e la solitudine sono come un cancro che ti divora dentro, finché il disfacimento esterno (qui portato al parossismo, ovviamente) non diventa lo specchio del tuo stato interiore. “Starry Eyes” è la storia di un patto col diavolo e la metastasi del corpo e la sua successiva trasformazione non sono che la conseguenza della corruzione morale della protagonista. Gli unici veri film di zombi fra questi quattro, dal mio punto di vista, sono i due “Contracted”, dove la degenerazione fisica avviene per via di una malattia a trasmissione sessuale (ogni riferimento all’AIDS è assolutamente intenzionale): la protagonista, ubriaca, acconsente a un rapporto sessuale non protetto e in seguito, pur essendo consapevole delle conseguenze, usa il sesso per non sentirsi sola, infettando diverse altre persone (il sequel, meno interessante, mostra il dilagare dell’epidemia e la caccia a colui che l’ha cominciata). Tutti questi film, con l’eccezione di “Contracted: Phase II”, si concentrano sul “prima” e sul “durante” anziché sul “dopo”, assumendo una profondità psicologica che film incentrati solo sull’azione si sognano. La naturale evoluzione di tutto questo sarà “It follows” (2014) di David Robert Mitchell, dove i malati o gli zombi hanno lasciato il posto a una minaccia ologrammatica, invisibile: il focus è tutto sul morbo misterioso, divenuto un’entità “incarnata” che perseguita i “peccatori” per ucciderli. 
Nulla di tutto questo naturalmente sarebbe potuto esistere senza l’opera pionieristica di David Cronenberg. Il regista canadese, con “Il demone sotto la pelle” (“The parasite murders”) del 1975 e il successivo “Rabid - Sete di sangue” del ‘77, inaugura il suo “cinema delle mutazioni” orchestrando in un dittico “apocalittico” con creature a metà tra lo zombi e il vampiro, che ancora oggi non ha eguali, le infezioni e le mutazioni come conseguenza di pulsioni sessuali deviate. L’epidemia del parassita “afrodisiaco” penetra la società e la contamina a partire non dai bassifondi, ma da un suo baluardo, un ricco e moderno complesso residenziale (“Il demone sotto la pelle”), suggerendo una lettura psicanalitica e antropologica di una società già malata ab origine; oppure, il contagio parte dalla scienza (l’ambulatorio dove la protagonista Rose, interpretata dalla pornostar Marilyn Chambers, viene operata d’urgenza e diviene portatrice sana del virus) e il simbolismo sessuale supera ogni distinzione di genere, con Rose che sviluppa caratteristiche pansessuali (una sorta di vagina ascellare che contiene un pungiglione fallico) (“Rabid - Sete di sangue”). 

Il binomio sesso e zombi (zombi un po' sui generis, a volte), non troppo sorprendentemente, è presente soprattutto nel cinema asiatico, ma in genere è condito da un’abbondante vena umoristica e dissacrante, sebbene non sempre privo di un qualche significato o di spunti di riflessione: “Entrails of a beautiful woman” (“Bijono harawata”), 1986 e “Battle girl: the living dead in Tokyo bay” (“Batoru gâru: Tokyo crisis wars”), 1991, di Kazuo Komizu; “Bio-Zombie” (“Sun faa sau si”) di Wilson Yip, 1998; “Tokyo zombie” (“Tôkyô zonbi”) di Sakichi Sato, 2005; “Zombie ass: the toilet of the dead” (“Zonbi Asu”) di Noboru Iguchi, 2011; i 5 film della serie “Rape zombie: lust of the dead” (“Reipu zonbi: Lust of the dead”) firmati da Naoyuki Tomomatsu, autore anche di "Love Zombie: Romance of the Dead" ("Ren'aishitai: Romance of the dead") nel 2015 e di “Rape Zombie Side-Story: Hardcore of the Dead” (“Reipu zonbi gaiden: Hâdokoa obuza deddo”) nel 2017; "Zombie contro zombie - One Cut of the Dead" ("Kamera o tomeru na!?") di Shin'ichirō Ueda, 2017; "Zombie 100 - Cento cose da fare prima di non-morire" ("Zon 100: Zonbi ni naru made ni shitai 100 no koto"), 2023. 

In Italia l’immaginario del filone è innegabilmente legato agli zombi apocrifi di Lucio Fulci (“Zombi 2”, 1979; "Paura nella città dei morti viventi", 1980; "...e tu vivrai nel terrore! - L'aldilà", 1981; “Zombi 3", 1988), che, come gran parte dei film del regista romano, sono stati rivalutati solo dopo la sua morte, ma vanno segnalati, se non altro come curiosità, i porno-zombi di Joe D’Amato, ovvero Aristide Massaccesi (“Le Notti Erotiche dei Morti Viventi”, 1980 e “Porno Holocaust”, 1981). L’apporto più originale al genere è stato però quello di Pupi Avati, il maestro del “gotico padano” e già autore del capolavoro “La casa dalle finestre che ridono” (1976). “Zeder” (1983) prende il via dall’indagine di uno scrittore sul fenomeno dei “terreni k”, che in base alle teorie del misterioso Paolo Zeder sarebbero in grado di riportare in vita i morti. Il film esce nelle sale lo stesso anno in cui viene pubblicato “Pet Sematary” di Stephen King, romanzo con cui il film di Avati ha in comune l’idea del terreno “miracoloso”.

Finora abbiamo visto capisaldi del genere e film più di nicchia, ma dal nostro punto di vista, quello di un progetto che si propone di parlare del cibo in chiave filmica, un’opera come ”Otto; or, Up with Dead People", il “gay zombie movie” del 2008 di Bruce LaBruce, è molto più pertinente e interessante di qualsiasi altro film di zombi. In questo ritratto di un emarginato, infatti, la componente alimentare è fondamentale: il protagonista è gay, forse è uno zombi e forse è solo schizofrenico, ma soprattutto è vegetariano, o forse vegano, e quindi è un’anomalia nell’anomalia, ed è così che la critica del regista si fa radicale, coinvolgendo la società nel suo complesso, con i suoi condizionamenti e i bisogni indotti e i suoi riti sanguinolenti. C'è una domanda che mi e vi feci parlando del film, nel lontano 2015, e che oggi voglio riproporre: “Solo con l'alienazione o con la morte (e nella morte) possiamo aspirare a liberarci dalle catene del conformismo e ad essere finalmente e veramente noi stessi?” LaBruce ha tentato, sul finale, di darci una risposta, ma ognuno di noi è chiamato a darsi la sua. Se il film vi incuriosisse, a questo link trovate il mio vecchio articolo sul blog.

(*) “Le tombe dei resuscitati ciechi” (“La noche del terror ciego”) (1971) - “La cavalcata dei resuscitati ciechi” (“El ataque de los muertos sin ojos”) (1973) - “La nave maledetta” (“El buque maldito”) (1974) -  “La notte dei resuscitati ciechi“ (“La noche de las gaviotas”) (1975).
(**) Nel piccolo horror nostrano "Safrom"di Nicola Barnaba, del 2015, gli esperimenti finanziati dai militari in un’industria farmaceutica trasformano in zombi i soggetti degli esperimenti. Le mutazioni sono causate da una sorta di fungo che riesce a trasmettere le sue spore da un corpo all’altro, un’esigua ma interessante variazione sul tema stra-abusato dell’esperimento andato male che purtroppo non basta a rendere il film imperdibile.



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