“Fuori speciale” è una serie di articoli che vengono scritti di getto nel periodo di pubblicazione dello
speciale “La grande abbuffata”. Pur non essendone parte integrante, ciò che viene qui trattato
ruota intorno all’argomento principale senza spezzarne il filo logico. Si tratta, in estrema sintesi, di
piccoli approfondimenti che non hanno trovato posto nella struttura principale. “Fuori speciale”, in
uscita tutti i venerdì, non è una lettura necessaria alla comprensione degli articoli de “La grande abbuffata” (che usciranno invece il lunedì), è viceversa una lettura che può essere ignorata o
rimandata, a vostro piacimento.
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Il cibo sintetico è stato per lungo tempo appannaggio della fantascienza. Mi vengono alla mente moltissime scene tratte da serie tv più o meno famose in cui i personaggi ordinano il menù preferito a un computer, il quale eroga nel giro di pochi secondi, o al massimo di pochi minuti, pietanze che ricreano nella forma e nel sapore i classici primi, i secondi, i contorni e i dolci; oppure, ai meno fortunati il computer si limita a erogare pillole dall’aspetto molto meno invitante, ma altrettanto complete dal punto di vista nutrizionale.
Naturalmente, il nostro livello di tecnologia attuale non è neppure paragonabile a quello immaginato dagli sceneggiatori del passato: se quella fantasia si è avverata, lo ha fatto però in modo meno futuristico, perché il nostro cibo sintetico è un prodotto industriale analogo a un qualunque cibo processato, un cibo che sta a noi acquistare, talora cucinare, e mettere in tavola. Questa è la realtà, oggi; in futuro, chissà.
Per associazione di idee, la mente torna anche al film di animazione di Keita Kurosaka del 2010 “Midori-ko” (緑子), che scoprii anni fa per caso, lo ammetto, cercando in rete il più famoso "Midori – La ragazza delle camelie" (Shôjotsubaki: Chika gentô gekiga) di Hiroshi Harada, del 1992, tratto dal manga di Suehiro Maruo.
Il racconto è ambientato in una Tokyo distopica flagellata dalla carestia, dove cinque scienziati - mutanti, come gran parte della popolazione - lavorano a un cibo sintetico molto, molto particolare: riescono infatti a far crescere in breve tempo una pianta enorme (che per un attimo mi ha ricordato la pianta della fiaba "Jack e il fagiolo magico") che genera un frutto racchiuso in una sorta di baccello; il frutto si stacca dalla pianta e si catapulta fuori dalla finestra del laboratorio finendo nella stanza di una giovane donna, Midori. Questo frutto ha la forma del nasu, la melanzana giapponese, ma quando Midori cerca di aprirlo con un bisturi si agita e volge su di lei un volto umano, quello di un neonato (più tardi il suo corpo svilupperà degli arti e non sarà troppo diverso da quello degli umani mutanti che abitano il bizzarro mondo di Kurosaka).
Midori rimane molto impressionata, lo osserva e usa perfino una delle sue apparecchiature per analizzarlo, ma alla fine non riesce proprio a considerarlo un vegetale e comincia a trattarlo come se fosse suo figlio (da cui il nome Midori-ko, dove ko sta per kodomo: bambino, appunto). La storia si concentra proprio su Midori, che avevamo già conosciuto, bambina, all’inizio del film, in un passato idilliaco e colorato che non si era ancora trasformato nel malinconico presente (in un passaggio ben reso dallo stacco stilistico e cromatico), ma in cui già la piccola aveva manifestato avversione per la carne e pregava una stella di trasportarla per magia nella "terra dei vegetali".
La stessa Midori, ormai adulta e ancora vegetariana, coltiva e vende verdura e nel frattempo cerca di progettare con l’aiuto del computer un cibo che possa sfamare più persone possibili senza che queste debbano nutrirsi di carne animale. Con lo stesso spirito Midori fa di tutto per proteggere Midori-ko dalle mire dei suoi affamati vicini di casa, ma il bambino-melanzana cresce e controllarlo tutto il tempo diventa sempre più difficile… Arriviamo così all’allucinato finale, dieci minuti di puro weird in cui viene mostrato quello che, grazie a quanto visto in precedenza, appare come un vero e proprio atto contro natura, qualcosa di davvero terribile e angosciante.
Tramite questo racconto grottesco, reso graficamente tramite circa 20.000 disegni animati che compongono un dipinto, o forse un affresco, dai colori soffusi, l’Autore invoca la contraddizione insita nella vita per la quale la vita stessa si nutre di altra vita e ognuno viene al mondo per consumare o essere consumato – ed è questa la vera tragedia del nascere. Quanto narrato ci impone una riflessione profonda e sollecita la risposta a diversi interrogativi: potreste mangiare un cibo che sia stato creato ibridando la carne con la fibra vegetale? Un vegetale che sembra avere un volto umano, il viso di un neonato, con tanto di occhi spalancati su di voi? Un vegetale senziente, che reagisce al dolore o all’aspettativa del dolore, che può muoversi e comunicare? Che differenza c’è tra un ibrido di questo tipo e un animale, a cui la natura ha già dotato una sua fisionomia ed è in grado di esprimere con le smorfie, la voce e i gesti tutte le sfumature del dolore e della paura? Cosa ci separa dalle altre forme di vita, animali e vegetali, quando la rassomiglianza fisica viene ridotta o annullata? E ancora: che diritto ha l’uomo di modificare la natura? Che responsabilità ha l’uomo nei confronti di ciò che ha creato? E così via.
Le recensioni al mediometraggio sono le più disparate, tra chi azzarda paragoni con David Lynch (e in effetti la visionarietà del film è indiscutibile) e chi giudica il risultato interessante dal punto di vista tematico ma deludente nella realizzazione (non si può negare che tutto diventi a un certo punto un po’ caotico). A me alcune tavole hanno ricordato, chissà perché, il capolavoro di Francisco Goya “Saturno che divora i suoi figli”, ma è probabile sia solo una mia suggestione, e comunque non ho idea se Goya abbia avuto alcuna influenza su Kurosaka (che, pure, è un pittore). Non dico altro, perché ci sono sfumature che possono essere colte solo a livello personale, individuale: e il film è disponibile sottotitolato sul tubo, per chi volesse vederlo.
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