“Fuori speciale” è una serie di articoli che vengono scritti di getto nel periodo di pubblicazione dello
speciale “La grande abbuffata”. Pur non essendone parte integrante, ciò che viene qui trattato
ruota intorno all’argomento principale senza spezzarne il filo logico. Si tratta, in estrema sintesi, di
piccoli approfondimenti che non hanno trovato posto nella struttura principale. “Fuori speciale”, in
uscita tutti i venerdì, non è una lettura necessaria alla comprensione degli articoli de “La grande abbuffata” (che usciranno invece il lunedì), è viceversa una lettura che può essere ignorata o
rimandata, a vostro piacimento.
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Un appassionato di cinema horror degno di questo nome ha certamente un rapporto di odio-amore con gli zombi, nel senso che ogni volta che ne viene presentato uno nuovo si precipita al cinema (o sulla piattaforma) per gustarselo, pur nella consapevolezza che l’entusiasmo iniziale si trasformerà ben presto in una drammatica incazzatura.
Questo perché, diciamocelo, non ci sono più i film di zombi di una volta. O, per meglio dire, il 99% delle nuove proposte non sono altro che riproposizioni di uno schema visto e rivisto, riproposizioni delle quali avremmo potuto benissimo fare a meno se solo non fossimo stati così stupidi da farci calamitare per l’ennesima volta dal fascino che quegli abomini ritornati dalla morte esercitano su di noi. Ed è un fascino che difficilmente altre creature dell’horror moderno sono in grado di generare.
Le ragioni vanno forse cercate in psicologia: la paura di essere inseguiti è indubbiamente uno dei sogni più ricorrenti della nostra era, e per molti rappresenta la lettura di situazioni reali nelle quali qualcuno cerca di prevaricare su di noi abusando della sua autorità o influenza, come per esempio un datore di lavoro. Per altri l’essere inseguiti potrebbe rappresentare un problema da risolvere, una grave difficoltà che non si ha la forza di affrontare (non è un caso se dell’inseguitore non si riesce quasi mai a mettere a fuoco il viso), potrebbe rappresentare un peso sulla coscienza derivante dall’aver commesso qualcosa di socialmente condannabile dal punto di vista etico, e, in tutti questi casi, l’atto del nascondersi potrebbe significare di non essere pronti ad assumersi le proprie responsabilità. In estrema sintesi, lo zombi famelico rappresenta le difficoltà con le quali tutti noi abbiamo a che fare, magari in diversa misura, ogni giorno della nostra vita. Ecco perché quelle poche idee buone e originali hanno alla base un’accurata ricerca nella psicologia umana. Un esempio su tutti è il vecchietto con deambulatore che cerca di sfuggire ai morti viventi in “London Zombies” (Cockneys vs Zombies, 2012) di Matthias Hoene, che estremizza l’impossibilità di una vera fuga dalle nostre responsabilità. Per ovvi motivi, in sogni come questo ci si sveglia prima di cadere nelle mani dell'inseguitore e ciò, guarda la combinazione, è anche il caso del “cockney” del titolo, che (spoiler) riuscirà a “deambularsi” al sicuro, sorprendendo la platea e strappando un sonoro applauso.
Metaforicamente, come giustamente ci aveva insegnato il grande George A. Romero, gli zombi sono i prodotti della società moderna, sono coloro che pensano e si comportano tutti allo stesso modo, che ritengono di essere anticonformisti se si omologano allo stereotipo di individuo medio che gli hanno inculcato, che credono di essere altruisti se seguono la moda del pensiero unico. Sono coloro che seguono schemi progettati da altri, che indossano abiti che altri gli hanno cucito addosso, che guardano ma non osservano, che sentono ma non colgono, che pensano ma non ragionano, che sognano ciò che diffonde la propaganda, che desiderano ciò di cui parla la pubblicità e che, in ultima istanza, tormentano con inaudita ferocia coloro che si sono resi conto della follia in cui vivono e cercano disperatamente di tirarsene fuori.
Dal punto cui siamo arrivati oggi aveva benissimo cercato di metterci in guarda George A. Romero, e lo aveva fatto per gradi. Il suo primo messaggio (“Night of the Living Dead”, 1968) era incarnato da un racconto apocalittico circoscritto: una fattoria isolata, un piccolo gruppo di persone eterogenee assediato dai morti che per qualche ragione ignota si svegliano e aggrediscono i vivi per mangiarseli. In quel primo capitolo quelli dentro eravamo noi, quelli fuori erano gli altri. Il messaggio in seguito fu ancora più terrificante, divenendo «Loro siamo noi» (“Dawn of the Dead”, 1978), nel quale lo zombi smetteva di essere un individuo singolo, dotato di volontà propria, e il suo comportamento finiva per omologarsi a quello di una comunità di essere non pensanti; nel terzo capitolo (“Day of the Dead”, 1983) il messaggio si evolve ulteriormente in un «Noi siamo loro» nel quale lo scambio di ruoli è finalmente completato, e un solo essere pensante, il mitologico Bub, viene trascinato con la forza sulla via dell’apprendimento del vivere “civile” affinché cessi di essere un pericolo per la comunità.
Oggi, a causa del martellamento cinematografico a cui siamo stati sottoposti negli ultimi decenni, è lo zombi che incarna perfettamente il nostro avversario, ma è chiaro che esiste un’analoga alternativa per tormentare le notti anche di chiper scelta personale non guarda film horror. E la prima alternativa, altrettanto feroce, non può che essere l’animale selvatico o inselvatichito, ancor meglio se famelico e ancor meglio se abituato a cacciare in branco. Nella società odierna, il progressivo e rapido cambiamento da uno stile di vita rurale a uno più confortevole ci ha portato nel tempo a dimenticarci del lupo, l’equivalente perfetto dello zombi in termini comportamentali, ma oggi la sua immagine sopravvive forse negli incubi di chi ha qualche conto in sospeso con la malavita o di chi deve affrontare sfide davvero ardue, come il sopravvivere nei mercati finanziari.
Al posto del lupo oggi abbiamo il cane, il guardiano per eccellenza, che chiaramente rappresenta il datore di lavoro, che cerchiamo di evitare (per sfuggire alle nostre responsabilità) ma al quale cerchiamo anche di andare incontro per non compromettere la nostra carriera. Più ingenerale, il cane rappresenta l’autorità; è il genitore che non consente al figlio di far tardi la sera, è l’uomo in divisa che ci insegue e ci punisce quando usciamo dai rigidi schemi, talvolta discutibili, che la società ci impone. In estrema sintesi, quando parliamo della paura degli animali, in una società moderna dove, occorre ricordarlo, l’animale non è contemplato (e quando è contemplato si tende ad antropomorfizzarlo, proprio come il povero Bub in “Day of the Dead”), parliamo di un problema di conoscenza dell’altro, di incomunicabilità. Senza contare la paura che l’altro possa rompere i nostri schemi e costringerci a uscire dalla nostra zona di comfort.
Non si sta parlando di zoofobia, che è una situazione clinica completamente diversa. Quest’ ultima in genere si divide in a) una predisposizione avversa che ci porta a temere (o a provare disgusto per) alcuni tipi di animali, come serpenti, ragni e insetti, e b) un timore pertinente che spesso deriva da un'esperienza negativa avvenuta durante l’infanzia (la situazione più tipica è quella di un cane che ci ha abbaiato contro). Si tratta in realtà della classica paura della “selva” che ben aveva descritto Dante Alighieri sin dal primo canto della sua Commedia, ovvero la paura universale nei confronti della morte (la selva è infatti tanto «amara che poco è più morte»), e che è, oggi come allora, perfettamente comprensibile.
La fuga è quindi la ricerca inconscia di un “luogo sicuro” elaborata nel momento in cui ci si rende conto che non esiste alcun punto di incontro tra noi e gli altri, dove per “altri” si intende la morte o tutto ciò che in qualche modo minaccia la nostra esistenza.
È curiosa la recente tendenza a trasformare gli animali in zombi e scatenarli all’inseguimento dei soliti sopravvissuti all’apocalisse di turno. Nella teoria sarebbe come sommare due fobie e amplificarne gli effetti. Dal lato pratico lo spettatore ancora una volta si fa catapultare al cinema, ma al termine della proiezione non potrà che ammettere di essersi fatto servire l’ennesima puttanata. Dei cani abbiamo già parlato, e infatti cani-zombi sono presenti in numerose pellicole, tra cui “Io sono leggenda” (Francis Lawrence, 2007), “Dimensione terrore” (Fred Dekker, 1986), “REC” (Jaume Balagueró, 2007), “Demoni 2” (Lamberto Bava, 1986) e “Resident Evil” (Paul W. S. Anderson, 2002), ma la contaminazione animali-zombi non si limita solo ai cani. Abbiamo gatti-zombi in “Night of the Zombies” (Joel M. Reed, 1981), in “Scouts vs zombies”(Christopher B. Landon, 2015), e soprattutto abbiamo il mitico gatto Church di “Pet Sematary” (Mary Lambert, 1989) e del suo remake (Kevin Kölsch e Dennis Widmyer, 2019); abbiamo cavalli in “Blood Creek” (Joel Schumacher, 2009) e in “Army of the Dead” (Zack Snyder, 2021), abbiamo pecore in “Black Sheep” (Jonathan King, 2006) e addirittura polli in “Poultrygeist: Night of the Chicken Dead” (Lloyd Kaufman, 2006).
Tra gli esempi più interessanti vale la pena ricordare “Zombeavers” (Jordan Rubin, 2014), nel quale la parte dell’avversario è affidata a dei simpatici castori, e che fa leva su una delle fobie più comuni dei nostri tempi, ovvero quella nei confronti dei roditori, una fobia che può distinguersi tra il semplice disgusto (che, nel caso dei topi, è un sentimento comune da parte di noi umani), e un vero terrore alimentato anche da un fattore culturale e da convinzioni specifiche, come quelle che vedono questi animali come portatori di malattie e sporcizia. Riassumendo, per ogni fobia c’è uno zombi cucito su misura.
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