sabato 22 aprile 2017

Art of the Devil

Long khong 2 (Art of the devil 3, 2008)
Come se la tradizione del Kuman tong non fosse già abbastanza angosciante, si crede anche che dalle sostanze che si sprigionano dal corpo del bambino durante la sua trasformazione in Kuman tong si ottenga un olio efficace per i legamenti d’amore (secondo altre fonti, quest'olio si può ottenere anche dal sangue della madre). Provate a digitare le parole “Nam Man Prai Oil” su internet e vi si spalancherà un mondo: a quanto pare sono moltissime le persone che credono ciecamente nella sua efficacia, e i prezzi possono lievitare fino a raggiungere cifre esorbitanti. Potere della suggestione?
Per attirare a sé la persona desiderata, l’olio va abbinato alla recitazione di mantra, ma occorre anche ingraziarsi lo spirito del defunto con delle offerte: in un certo senso, l’olio va “accudito” e blandito esattamente come si farebbe con un Kuman tong
Il Nam Man Prai Oil, se proprio non se ne può fare a meno, andrebbe sempre maneggiato in modo corretto e consapevole, e se si vorrà disfarsene bisognerà accertarsi di vuotarne il residuo in un corso d'acqua dopo aver pronunciato delle apposite formule di commiato. Sono molti i film che mostrano le tragiche conseguenze dell'uso incauto di questo “olio dei morti”: uno su tutti, il film antologico "Bangkok Haunted" (Bangkok Kill City, 2001) di Oxide Chun Pang e Pisut Praesangeam. In quello che per me è forse l’episodio meno riuscito del lotto, il secondo di tre, la giovane Pam apprende dalla sua vicina di casa dell’esistenza di un olio che rende irresistibili, e che scopriamo essere realizzato con il sangue di donne uccise proprio per realizzare la preziosa pozione. Pam, ignara di tutti i retroscena, se ne procura una boccetta, ma quando usa l’olio su Tim finisce per attirare su di lui l’ira dello spirito ivi contenuto...
Kuman tong, come altri tipi di amuleti magici, viene definito yan (yantra). I tailandesi sembrano avere una vera e propria mania per questi amuleti, ma la cosa peculiare è che la magia nera si può utilizzare anche per incanalare il potere degli spiriti in disegni geometrici e altri segni tatuati sulla pelle, una forma di rappresentazione stilizzata che serve soprattutto per attuare un controllo magico su quegli stessi poteri. Credo, in effetti, che sia quello il senso dei tatuaggi che decorano in corpo della strega-villain protagonista di ben due film della saga di “Art of the devil”. 

Khon len khong (Art of the devil, 2004)
A questo punto mi pare sia necessaria una piccola digressione. Già in tempi non sospetti, diciamo più o meno due anni fa, subito dopo aver concluso lo Speciale Whispering Corridors, mi era balenata nella mente l’idea di dedicare un intero speciale alla trilogia tailandese “Art of the devil”. Le cose sono poi andate diversamente, come avrete notato, ma quella bozza di idea ha continuato a ronzarmi nella testa incessantemente. Per un breve periodo avevo anche inserito un banner nella pagina statica “Oltre lo specchio”, per poi toglierlo nel momento in cui avevo capito che non era quella la strada giusta da percorrere. Non era possibile infatti (o almeno io non riuscivo a capire come fare) costruire un intero speciale di un mese attorno a tre soli film e a un argomento, per quanto vasto, come la magia nera tailandese. Quell’idea di base si è poi evoluta e, due anni dopo, si è materializzata nello speciale che state leggendo, nel cui contesto “Art of the Devil” ha una sua presenza, seppure piuttosto ridimensionata. Nonostante ciò, il ciclo Art of the Devil è pur sempre un tassello importante del cinema horror tailandese, e basterebbe una sola occhiata alle locandine o alle foto di scena per capire immediatamente quanto in esso siano presenti quegli elementi del folclore con i quali un blog come Obsidian Mirror va spesso a nozze. Fine digressione. 

Poco fa ho usato il termine “trilogia” per definire “Art of the Devil”: a dire il vero, trilogia è un termine un po’ fuorviante, dal momento che, sebbene sia pacifico che esistano tre film con quello stesso titolo, soltanto il secondo e il terzo capitolo sono in qualche modo legati fra loro sul piano narrativo (per la precisione, il terzo film è un prequel del secondo). Per complicare ancora di più le cose, quello che nelle locandine è indicato come Art of the Devil 2 nei titoli di testa appare semplicemente come Art of the Devil, mentre quello che nelle locandine è indicato come Art of the Devil 3 nei titoli di testa appare come Art of the Devil 2. Ce n’è già abbastanza per farsi venire il mal di testa, rosicando nel dubbio di essere riusciti davvero a identificare tutti i film e la loro esatta sequenza. Qualunque possa essere il motivo che sta alla base di questo ginepraio (sospetto che l’idea di un titolo unico sia nato solo in fase di distribuzione), i tre episodi sono accomunati dal tema della magia nera e dal medesimo messaggio di fondo: ovvero, che gli effetti della magia sono irreversibili e che, proprio per questo, essa va maneggiata con cautela. In altre parole: stai attento a quello che desideri, perché una volta che l’avrai ottenuto non te ne potrai mai liberare. 

Long khong (Art of the devil 2, 2005)
Nel primo “Art of the devil” (Khon len khong, 2004) di Tanit Jitnukul, una giovane donna invoca l’aiuto di uno stregone per vendicarsi dell’ex amante che l’ha maltrattata, umiliata e abbandonata. È la classica storia dove il delitto è meno grave del castigo. Dopo aver sterminato costui e la sua famiglia, la donna si insinua nella vita della sua precedente famiglia (a quanto pare, l’uomo aveva una ex moglie e figli di primo letto) in modo da far fuori anche loro e impadronirsi della casa e dei beni del suo antico amante. Potreste pensare che io stia spoilerando troppo, ma così non è, perché nelle sue linee generali la storia viene già messa sul piatto entro cinque minuti dall’inizio. Quello che segue, o almeno la gran parte, è un lungo racconto che l’assassina fa all’ultimo superstite dell’interminabile strage per giustificare quello che sta facendo (il classico spiegone cinematografico in cui il killer si perde invece di farla finita e uccidere subito). 
Nel film assistiamo a quella che sembra proprio la creazione di un Kuman tong (e dell'olio dei morti) da parte dell’uomo che ha aiutato la protagonista ad attuare la sua vendetta, e a un certo punto fa capolino persino un fantasma albino (!) il cui ruolo verrà svelato solo alla fine. Un film che è decisamente raccomandato, ma solo nell’ottica di voler penetrare da spettatore nelle pieghe delle credenze magiche tailandesi. Da questo punto di vista, Art of the Devil è senza dubbio interessante; sotto tutti gli altri punti di vista, è invece una buona occasione mancata. Non che il film sia così tremendo, in fondo si lascia guardare, ma non si eleva mai al di sopra della mediocrità ed è destinato a perdersi nella massa di pellicole senza particolari pregi se non una buona fattura. Curiosa è però la scelta del regista di girare i flashback a colori e il presente in bianco e nero (mentre normalmente avviene il contrario) nella prima parte del film, per poi adottare un colore quasi uniforme virato nei toni del blu. 

Long khong 2 (Art of the devil 3, 2008)
Di tutt’altra pasta sono i due episodi successivi: “Art of the devil 2” (Long khong, 2005) e “Art of the devil 3” (Long khong 2, 2008), del collettivo Ronin Team, sono ancora storie di vendette incrociate portate a termine ricorrendo alla magia nera, ma nessuno dei personaggi è davvero innocente e, alla fine, si fa fatica a provare empatia per alcuno di essi. “Long khong” alterna momenti in cui sembra un classico horror ad ambientazione scolastica ad altri in cui il mistero della natura tailandese ci fa pensare di trovarci di fronte a qualcos’altro, ma a conti fatti l’atmosfera misteriosa cede il passo a un plot abbastanza convenzionale. Però la villain, ovvero la strega-sciamana al centro di entrambe le storie, è un personaggio un po’ più intrigante della ragazza sedotta e abbandonata del primo episodio, e viene fra l’altro suggerito che la sua ferocia derivi dal fatto che è posseduta dal diavolo dai tre occhi (una figura non so quanto reale del folclore: non ne ho trovato traccia da nessun’altra parte, ma non escludo che possa essere ispirata a un vero demone). 
Centrale in tutti e tre i film è invece la figura del Moh Phi, lo stregone-sciamano, ora un insospettabile barbiere che nasconde gli “attrezzi da lavoro” nel retrobottega (Khon len khong), ora un monaco (Long khong e Long khong 2) e ora un belloccio che somiglia più a un tronista che a un maestro nelle arti magiche (Long khong 2). Un po’ più di cura in fase di sceneggiatura avrebbe giovato alla trilogia (anche se “Long khong” si conclude con un bel twist), ma in compenso gli ultimi sono due film di una violenza inaspettata, a tratti esagerata, con situazioni degne di un torture porn. 

A questo proposito, Long khong sarebbe anche la dimostrazione che il genere torture ha trovato una sua linfa vitale ovunque nel mondo proprio nello stesso periodo, visto che “Hostel” (2005) di Eli Roth, da tutti riconosciuto come il capostipite del genere, è uscito nelle sale il 6 gennaio 2006, solo trentasei giorni dopo “Art of the Devil 2”. Non voglio ovviamente insinuare che quel mese di differenza possa essere in grado di spostare la nascita di un genere da un’altra parte del mondo (c’è in fondo sempre il primo Saw di James Wan che anticipa entrambi di un anno) ma la coincidenza, ammettiamolo, è piuttosto singolare.

Khon len khong (Art of the devil, 2004)


12 commenti:

  1. Ho aspettato di avere un po' di tempo libero per poter leggere con calma e senza interruzioni il tuo "speciale Thailandia". Direi che ho fatto bene, dal momento che sono stato informato sia di molte antiche, misteriose e agghiaccianti tradizioni popolari sia della produzione cinematografica locale. Davvero un ottimo lavoro del quale non posso che dirmi grato. Grazie!

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    1. E io non posso che ringraziarti per le belle parole (e anche per esserti letto tutto questi articoli tutti d'un fiato, sacrificando il tuo tempo libero). Il viaggio non è però ancora finito: restano molte cose ancora da raccontare...

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  2. Hai seguito un'escalation in crescendo: sempre più inquietante.

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    1. A questo punto ormai è però tempo di iniziare la discesa. La fine del mese è ormai dietro l'angolo e i livelli di inquietudine è bene che inizino a calare...

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  3. Interessante la passione per gli amuleti di quel popolo.

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    1. Beh, in fondo quella degli amuleti è una passione che tutti i popoli hanno in comune, con le dovute differenze.

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  4. Girare i flashback a colori e il presente in bianco e nero potrebbe avere un duplice scopo: sottolineare l'importanza delle "origini del male" col colore, e anche far vedere meglio le scene più terrificanti.

    Come giustamente mi hai scritto nel post precedente, molte persone maneggiano rituali di magia nera senza avere la minima idea di che cosa stiano facendo: come scatenare mille tigri inferocite e non sapere più come bloccarle.

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    1. Sicuramente c'è una ragione che giustifichi la scelta del colore così come è stata fatta dal regista. Non la conosciamo con certezza ma sospetto che tu abbia proprio ragione.

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  5. Ho perso il ritmo ma conto di rifarmi del tempo perduto ;-)
    Sono contento che l'idea di uno speciale su 3 film (una tri-duologia!) si sia ampliata in uno splendido speciale come questo.
    Ah, e queste locandine sono ad un tempo graficamente splendide ma dannatamente inquietanti!
    (Sarebbe poi da affrontare il discorso su come mai in Asia sia rimasta così forte la cultura della "parola creatrice" sia orale che scritta, mantra e yantra. Studiando la "cultura ninja" ho ritrovato l'idea dell'acquisizione di poteri - o comunque della concretizzazione di un'idea - tramite ripetizione di parole "magiche" o di gesti. La gestualità esagerata degli eroi giapponesi anni Settanta portava all'eccesso un'idea antica: mediante gesti si poteva acquisire poteri. Come in fondo riempirsi di talismani e facendo pratiche scaramantiche si poteva difendersi da spiriti maligni, che è comunque fare qualcosa. A parte "fare le corna", nella nostra cultura non è rimasto molto di queste usanze antiche: saranno state tutte inglobate nei riti cristiani? La mano benedicente in fondo concretizza un'idea con un gesto... e tiene lontano gli spiriti!)

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    1. L’esistenza dei mantra è semplice da spiegare, dato che per la maggior parte delle religioni la vita è nata da una parola creatrice: dal misticismo ebraico, che vede le lettere come archetipi della creazione, al Verbo divino menzionato nella Bibbia (fra l’altro la base dell’esorcistica sta proprio nel potere della parola) all’Om della tradizione vedica, che come saprai è legato all'aspetto vibrazionale del creato (ne avevo accennato in un post scritto qualche anno fa…) e così via… il significato è il medesimo. Anche le arti marziali, nella loro espressione più pura, sono delle forme di meditazione.
      Per quanto riguarda la gestualità nei paesi a prevalenza cristiana, credo che la migliore spiegazione l’abbia già data tu: è probabile che gesti considerati magici in tempi antichi e ormai dimenticati siano stati tutti inglobati nei riti, dato che il cristianesimo è l’unica delle grandi religioni che prevede un tramite tra il fedele e Dio.
      Grazie per il sempre ottimo contributo ^_^

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  6. Teoricamente le arti marziali dovrebbero usare voce e gesti per un raggiungimento interiore, tipo pace ed equilibrio, ma questa è roba da manuali: da sempre chi le studia vuole menare, e menare forte. Così le storie che citavo vedevano i ninja diventare invisibili mediante gesti - come poi si usava anche al cinema - o diventare invincibili mediante ripetizione di certi mantra. Ricordo i boxer cinesi che erano convinti di essere invincibili alle pallottole occidentali semplicemente indossando una pettorina con un ideogramma sopra. Sono idee che sfuggono a qualsiasi logica, ma sono quelle che rimangono nella cultura popolare e nell'immaginario collettivo, finendo ad arricchire opere-patchwork tipo la Bibbia.
    Così nel nostro Testo Sacro abbiamo Dio che crea tramite gesto - il dito di Dio - tramite voce - il logos di Dio - ma anche tramite il palato. Ezechiele riceve un rotolo da Dio con l'ordine di mangiarlo, e ovviamente quel sapere era "dolce come il miele". Sono tutte idee spiluccate a questa o a quell'altra cultura che testimoniano i vari modi di intendere la "parola creatrice".
    Quello che mi stupisce è che poi le altre culture hanno mantenuto echi "moderni" di queste idee antiche, mentre nella nostra la Chiesa è riuscita a trasformare tutto. A parte qualche gesto scaramantico superfluo, ogni gesto importante ha il copyright religioso: se devi "creare" qualcosa, è sempre dalla Chiesa che devi passare. La regina del marketing!

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    1. Una cosa è certa: senza l’aspetto “ludico”, dubito che le arti marziali sarebbero così popolari, perlomeno da noi ;-)
      Beh, in fondo anche portare il crocifisso ha la stessa funzione (non molto diversa da quella del ferro di cavallo, a ben vedere): chi lo indossa è convinto di proteggersi dal male, né più ne meno di chi porta con sé un amuleto o si tatua una formula protettiva sulla pelle. L’Episodio di Ezechiele che citi troverebbe un suo spazio all’interno di post con quelli di Orizzonti del Reale ^_^

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