Spiriti d’autore. È così che avrei dovuto chiamare questo articolo, giacché gli spiriti presenti nei film del regista di culto Apichatpong Weerasethakul sono l’unico motivo che giustifica la comparsa dell’autore trentasettenne in uno speciale, come questo, dedicato al cinema horror tailandese.
Weerasethakul non è un regista mainstream, ma non ha nemmeno nulla a che fare con l’horror. Tuttavia, per quanto i suoi siano film in gran parte realistici e anche sottilmente politici, arriva sempre il momento in cui vi fanno capolino fantasmi e presenze.
È qui che la dimensione spirituale (o onirica, se vogliamo metterla in altri termini) diventa il vero motivo dominante della narrazione. Abbiamo visto come i tailandesi siano abituati a fare i conti con gli spiriti e i fantasmi in ogni momento della propria esistenza, pertanto non deve stupire che essi compaiano anche in contesti inusuali ai nostri occhi. Fra i suoi lungometraggi più famosi vanno citati “Loong Boonmee raleuk chat” (Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, palma d’Oro a Cannes nel 2010), “Sang sattawat” (Syndromes and a Century, 2006, miglior film del decennio secondo la classifica The Best of the Decade: An Alternative View della Cinemathèque del Toronto International Film Festival nel 2010) e “Sud pralad” (Tropical Malady, premio della Giuria a Cannes nel 2004). Tralasciando quello di mezzo, che non ho ancora visto, è sugli altri due che mi concentrerò oggi.
Molti forse rammentano “Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti” principalmente per il titolo, così lungo e particolare, più che per la trama. Non che il film non ne abbia una, ma è facile perderla di vista quando il regista si sofferma su particolari a prima vista poco significativi, o quando la lentezza diventa notevole per lo spettatore-tipo occidentale. C’è da dire che il titolo stesso difficilmente poteva far pensare a un film d’azione e, come sempre in questi casi, aiuta anche avere una minima conoscenza della cultura del paese d’origine del film: senza una totale immersione nella mentalità tailandese, la visione di questo film può diventare un’impresa ardua.
La storia è incentrata sugli ultimi giorni di vita del vecchio Boonmee, attorniato dalla sua famiglia nella campagna tailandese. Boonmee, sul confine fra la vita e la morte, attira a sé degli spiriti, incuriositi da lui oppure (come nel caso della moglie defunta e del figlio scomparso da lungo tempo, che gli appare sotto forma di un gorilla fantasma) legati a lui e animati dal desiderio di rivederlo, e forse anche di confortarlo, in quelle che sono scene familiari altrimenti ordinarie.
Alla fine, Boonmee si reca nella foresta per morire nella stessa caverna dove era venuto al mondo per la prima volta - poiché, come si evince anche dal titolo, egli è in grado di ricordare tutte le sue vite precedenti, anche se talora in modo molto vago.
“Lo zio Boonmee...” è ispirato all’omonimo libro del 1983 del monaco Phra Sripariyattiweti, che il regista conobbe da bambino in un monastero frequentato da suo padre, ma più che una trasposizione ne è un adattamento molto libero, essendo il film (a detta del regista) in parte autobiografico.
La narrazione affronta con ritmo lento e ipnotico argomenti come la morte, la reincarnazione e il karma, ma è anche una riflessione sulla memoria resa ricorrendo al tema degli spiriti degli antenati, benevoli e desiderosi di ritrovare un contatto con i vivi ma spesso in grado di farlo solo quando questi si trovano alla fine della vita. “Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti” tuttavia ha anche un suo ‘lato oscuro’ rintracciabile nel sottotesto politico che si rifà al progetto multimediale "Primitive", del quale questo film rappresenta solo uno dei tasselli. Un progetto ha come fulcro ideologico la memoria storica e il rimosso.
"Primitive" fu ideato nel 2009 per il FACT (Foundation for Art and Creative Technology) di Liverpool e poi mostrato in altri spazi espositivi e gallerie (incluso, tra marzo e aprile 2013, HangarBicocca di Milano): con dei video a metà fra documentario, vita vera e costruzione onirica, popolati da persone in carne e ossa e anche da fantasmi, Weerasethakul allestì la sua personale ricostruzione di una delle pagine più oscure e tragiche del suo paese. I video, di durata variabile (dai 29’ 34’’ di Primitive al minuto di A dedicated machine), sono infatti incentrati sugli eventi occorsi a Nabua, villaggio nel nord del paese nella provincia di Nakhon Pahom, vicino al confine con il Laos, negli anni Sessanta.
Nabua divenne tristemente famoso per la feroce repressione anticomunista instaurata dal governo su istigazione degli Stati Uniti (che sostenevano le gerarchie militari al potere in Tailandia in cambio di supporto e basi militari per le proprie missioni in Vietnam e Laos). Con i comunisti di Mao nascosti nella giungla e in un clima di oppressione, povertà e ingiustizia sociale, l’ideologia comunista divenne un’attrazione irresistibile per gli abitanti della zona; molti furono coloro che si iscrissero al CPT (il Communist Party of Thailand), altri forse non sapevano neppure cosa fosse il comunismo, ma ne fecero tutti le spese. Gli abusi fisici e psicologici scatenarono guerriglie armate fra il governo e gli agricoltori, che vennero accusati di ribellione, perseguitati e all’occorrenza uccisi. Per sopravvivere, molti di loro furono costretti a darsi alla macchia, e quando in un secondo momento il villaggio venne posto sotto regime militare e occupato non poterono più tornare indietro. Le donne e i pochi uomini rimasti nel villaggio li aiutavano come potevano, per esempio fornendogli del cibo di nascosto, ma molti finirono per essere letteralmente inghiottiti dalla giungla.
Lo stesso destino (forse) del figlio di Boonmee nel film, addentratosi nel bosco e ritornato a casa solo molti anni dopo sotto forma di spirito-gorilla. I ricordi di Boonmee assumono quindi una doppia valenza, personale e universale/politica, nel tentativo di mantenere viva la memoria di un passato che, con il trascorrere del tempo e la trasformazione del paese, molti tendono a rimuovere.
La stessa parola primitive, primitivo, richiama da un lato il passato, il desiderio di ritornare alle proprie origini, e dall’altra lo stato di ignoranza in cui spesso il governo riduce i propri cittadini. Il regista infatti ha dichiarato: Primitive ha per me diverse connotazioni. Una riguarda il modo in cui il luogo rimane fermo nel tempo e non progredisce. Questo ricordo, un ricordo brutale, permane e il modo in cui venivano trattate le persone durante quel periodo – dagli anni Sessanta fino ai primi anni Ottanta – era così primitivo… il modo in cui le persone giudicavano delle vite umane, e se si pensa a ciò che accade oggi in Tailandia, ci si rende conto che non c’è stato un vero progresso. Un’altra interpretazione della parola Primitive è quella di qualcosa da preservare, preservare il luogo come una comunità agricola. Se si osserva l’opera sui due schermi, questa tratta di come si sogna il futuro, ma se si ascolta di cosa trattano questi sogni, l’immagine è quella di un futuro con una società primitiva. Infatti, lo spazio utopistico non è necessariamente splendente e tecnologicamente avanzato, forse il futuro consiste nel ritorno ad una società basata sull’agricoltura (l’intervista completa è qui).
Il cinema come macchina del tempo o la reincarnazione per mezzo del cinema, insomma. Oppure, per usare un concetto più semplice, il cinema come terapia per risvegliare le coscienze insieme ai ricordi, e, si spera, dare a Nabua l’occasione di convivere con il suo ingombrante passato. Weerasethakul ha dato voce ai sopravvissuti, i figli di coloro che scomparvero oltre cinquant’anni fa, invitandoli a ripensare la storia di Nabua; realizzando un suo vecchio sogno, e perché l’analogia fra racconto e viaggio fosse ancora più evidente, ha costruito assieme a loro una navicella spaziale, a sua volta una metafora di come si possa costruire un nuovo mondo. La cosa più curiosa è però che, come chiarito dall’allestimento “Phantoms of Nabua”, Nabua viene chiamata dai locali la “città vedova”, ovvero senza uomini, a causa di un’antica leggenda relativa a un Phi Am, uno spirito-vedova che rapirebbe gli uomini che entrano nel suo regno per trasportarli altrove. Un altro modo per dire “ucciderebbe”, e una bella metafora di quel che accadde negli anni Sessanta per colpa del governo.
È la leggenda che ha precorso la realtà oppure essa stessa esiste per dar conto di quello che è il karma del villaggio di Nabua? Ma forse, come auspica il regista, il karma infine si potrà spezzare, liberando la città dalla vedova spettrale che la infesta.
Che la Tailandia si una terra piena di contrasti lo si capisce molto bene anche guardando “Tropical Malady” (2004), che è un film forse anche più misterioso, e fin dal titolo: l’originale “Sud Pralad” significa “mostro” oppure “strana creatura”, quindi non si capisce bene da dove derivi la traduzione utilizzata come titolo internazionale. Ma il film è noto anche come “Winyan”, altra traslitterazione di win-yaan – termine che, come abbiamo già visto in precedenza, significa “spirito”.
Entrambi, il titolo originale e quello in inglese, hanno comunque in sé qualcosa di morboso, insinuano un malessere che non potrà che acuirsi durante la visione, perlomeno in concomitanza con la seconda parte. “Tropical Malady” a mio avviso è ben più oscuro di “Lo zio Boonmee...”, sebbene in entrambi si veda la mano lieve, soave del regista, a detta di molti il suo vero marchio di fabbrica.
Nei suoi film si parla di fantasmi, sì, ma questo non significa che essi vogliano generare paura o soggezione, e se questo avviene è forse perché siamo noi a non essere avvezzi a considerare gli spiriti come qualcosa di naturale, facente parte di un mondo parallelo e contiguo al nostro e in grado talora di venirne in contatto. Quando in una scena uno dei due personaggi principali menziona quasi casualmente la visita, avvenuta tempo prima, di un suo zio in grado di ricordare le sue vite precedenti, scopriamo anche che “Tropical Malady” e “Lo zio Boonmee...” sono collegati: il primo contiene, in un certo senso, già il germe del secondo che sarà girato solo sei anni più tardi sebbene sia cronologicamente precedente (l’attore Sakda Kaewbuadee ricopre infatti lo stesso ruolo, quello di Tong, in entrambi i film).
“Tropical Malady” è diviso in due parti ben distinte, delle quali solo la prima è ambientata in un contesto (in parte urbano e in parte no) riconoscibile, “normale”. La seconda è un’immersione totale nella natura, ma non quella muta e in qualche modo addomesticata a cui siamo abituati: è una natura metafisica nella quale il confine fra ciò che è materiale e ciò che immateriale, realtà e sogno, vita e morte non è affatto chiaro né scontato. La prima parte racconta alcuni momenti della storia d’amore fra Keng, un soldato, e il più giovane Tong, un ragazzo di campagna che lavora in una fabbrica di ghiaccio. Sono scene di una quotidianità rassicurante, istantanee di un amore vissuto alla luce del sole riprese in un momento qualsiasi del suo incedere. L'ordinario cessa, si frantuma quando il regista si concentra su Tong, e benché il significato di quelle scene sia sfuggente, esse sembrano suggerire che il ragazzo abbia una sorta di vita parallela, o forse un lato oscuro.
In una di queste scene, all’inizio del film, Tong è nudo in mezzo alla campagna (benché il fatto che sia proprio Tong quell’uomo appare chiaro solo in seguito). Un’altra, la più enigmatica, è quella che chiude la prima parte del film: Keng e Tong hanno trascorso la giornata assieme, arriva il momento di separarsi e i due ragazzi si accarezzano e baciano le mani a vicenda. Quello è il momento in cui Tong, fino ad allora il più riservato dei due, si lascia andare. Keng è palesemente scosso da quell’atto così erotico, quasi famelico, osserva Tong allontanarsi nel buio e solo dopo un po’ si riscuote e se ne va in sella al motorino. Da lì in poi l’atmosfera muta completamente.
Voci ricorrenti parlano di una bestia feroce che proprio in quei giorni starebbe uccidendo il bestiame e terrorizzando il villaggio. Cosa significa? C’è un legame fra Tong e la bestia misteriosa? La risposta è celata nella seconda parte del film, ispirata alla leggenda di uno stregone mutaforma khmer, dove nel folto della foresta gli stessi attori interpretano un cacciatore e un essere che ora ci appare come una tigre e ora come un uomo nudo ricoperto di simboli magici. La tigre è davvero uno spirito-animale, oppure è uno sciamano che passa dallo stadio umano a quello bestiale e viceversa? Conosce il cacciatore, o comunque sa qualcosa che questi non sa? La sicurezza dell’uomo-tigre contrapposta alla confusione del cacciatore sembra indicare che i due si trovano in due stadi di evoluzione spirituale diversi (eppure, anche l’uomo-tigre mostra talvolta smarrimento e dolore, la sua solitudine altrettanto concreta del folto della foresta).
Sorge spontanea anche un’altra domanda: chi sta cacciando chi? Man mano che il cacciatore procede nella giungla, reso folle dai misteriosi fenomeni che lo attorniano, e che la bestia si insinua nei sogni di Keng (o dell’uomo che fu, o sarà, Keng) anche questo aspetto si fa meno chiaro; sembra, anzi, che il concetto stesso di caccia perda d’importanza, o meglio che le parti fra inseguitore e inseguito tendano continuamente a invertirsi, come del resto capita anche in molte storie d’amore. Non è forse vero che l’essenza della schermaglia amorosa è il rincorrersi, fino a che gli amanti non si fermino e decidano quale direzione prendere assieme?
Questa è dunque una storia d’amore ripresa in due momenti diversi (non necessariamente nell’ordine mostrato nel film, ma la questione è irrilevante) che si ripete nella ruota karmica, oppure si tratta di due versioni alternative della stessa storia? Tante domande, forse troppe, e nessuna risposta.
Purtroppo (o per fortuna) quella risposta resta al di fuori nella nostra portata. Restano, per certo, le suggestioni di un film che va a fondo nella tradizione spirituale di un paese lontano da noi, ove l’oscurità della giungla è lo spazio limite delle nostre certezze, ove il vero e il falso perdono di consistenza e tendono a sovrapporsi, dove si può vivere fianco a fianco con i fantasmi nell’attesa di diventare noi stessi dei fantasmi, o che a farlo siano i nostri ricordi.
È qui che la dimensione spirituale (o onirica, se vogliamo metterla in altri termini) diventa il vero motivo dominante della narrazione. Abbiamo visto come i tailandesi siano abituati a fare i conti con gli spiriti e i fantasmi in ogni momento della propria esistenza, pertanto non deve stupire che essi compaiano anche in contesti inusuali ai nostri occhi. Fra i suoi lungometraggi più famosi vanno citati “Loong Boonmee raleuk chat” (Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, palma d’Oro a Cannes nel 2010), “Sang sattawat” (Syndromes and a Century, 2006, miglior film del decennio secondo la classifica The Best of the Decade: An Alternative View della Cinemathèque del Toronto International Film Festival nel 2010) e “Sud pralad” (Tropical Malady, premio della Giuria a Cannes nel 2004). Tralasciando quello di mezzo, che non ho ancora visto, è sugli altri due che mi concentrerò oggi.
Molti forse rammentano “Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti” principalmente per il titolo, così lungo e particolare, più che per la trama. Non che il film non ne abbia una, ma è facile perderla di vista quando il regista si sofferma su particolari a prima vista poco significativi, o quando la lentezza diventa notevole per lo spettatore-tipo occidentale. C’è da dire che il titolo stesso difficilmente poteva far pensare a un film d’azione e, come sempre in questi casi, aiuta anche avere una minima conoscenza della cultura del paese d’origine del film: senza una totale immersione nella mentalità tailandese, la visione di questo film può diventare un’impresa ardua.
La storia è incentrata sugli ultimi giorni di vita del vecchio Boonmee, attorniato dalla sua famiglia nella campagna tailandese. Boonmee, sul confine fra la vita e la morte, attira a sé degli spiriti, incuriositi da lui oppure (come nel caso della moglie defunta e del figlio scomparso da lungo tempo, che gli appare sotto forma di un gorilla fantasma) legati a lui e animati dal desiderio di rivederlo, e forse anche di confortarlo, in quelle che sono scene familiari altrimenti ordinarie.
Alla fine, Boonmee si reca nella foresta per morire nella stessa caverna dove era venuto al mondo per la prima volta - poiché, come si evince anche dal titolo, egli è in grado di ricordare tutte le sue vite precedenti, anche se talora in modo molto vago.
“Lo zio Boonmee...” è ispirato all’omonimo libro del 1983 del monaco Phra Sripariyattiweti, che il regista conobbe da bambino in un monastero frequentato da suo padre, ma più che una trasposizione ne è un adattamento molto libero, essendo il film (a detta del regista) in parte autobiografico.
La narrazione affronta con ritmo lento e ipnotico argomenti come la morte, la reincarnazione e il karma, ma è anche una riflessione sulla memoria resa ricorrendo al tema degli spiriti degli antenati, benevoli e desiderosi di ritrovare un contatto con i vivi ma spesso in grado di farlo solo quando questi si trovano alla fine della vita. “Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti” tuttavia ha anche un suo ‘lato oscuro’ rintracciabile nel sottotesto politico che si rifà al progetto multimediale "Primitive", del quale questo film rappresenta solo uno dei tasselli. Un progetto ha come fulcro ideologico la memoria storica e il rimosso.
"Primitive" fu ideato nel 2009 per il FACT (Foundation for Art and Creative Technology) di Liverpool e poi mostrato in altri spazi espositivi e gallerie (incluso, tra marzo e aprile 2013, HangarBicocca di Milano): con dei video a metà fra documentario, vita vera e costruzione onirica, popolati da persone in carne e ossa e anche da fantasmi, Weerasethakul allestì la sua personale ricostruzione di una delle pagine più oscure e tragiche del suo paese. I video, di durata variabile (dai 29’ 34’’ di Primitive al minuto di A dedicated machine), sono infatti incentrati sugli eventi occorsi a Nabua, villaggio nel nord del paese nella provincia di Nakhon Pahom, vicino al confine con il Laos, negli anni Sessanta.
Nabua divenne tristemente famoso per la feroce repressione anticomunista instaurata dal governo su istigazione degli Stati Uniti (che sostenevano le gerarchie militari al potere in Tailandia in cambio di supporto e basi militari per le proprie missioni in Vietnam e Laos). Con i comunisti di Mao nascosti nella giungla e in un clima di oppressione, povertà e ingiustizia sociale, l’ideologia comunista divenne un’attrazione irresistibile per gli abitanti della zona; molti furono coloro che si iscrissero al CPT (il Communist Party of Thailand), altri forse non sapevano neppure cosa fosse il comunismo, ma ne fecero tutti le spese. Gli abusi fisici e psicologici scatenarono guerriglie armate fra il governo e gli agricoltori, che vennero accusati di ribellione, perseguitati e all’occorrenza uccisi. Per sopravvivere, molti di loro furono costretti a darsi alla macchia, e quando in un secondo momento il villaggio venne posto sotto regime militare e occupato non poterono più tornare indietro. Le donne e i pochi uomini rimasti nel villaggio li aiutavano come potevano, per esempio fornendogli del cibo di nascosto, ma molti finirono per essere letteralmente inghiottiti dalla giungla.
Apichatpong Weerasethakul: Primitive |
Il cinema come macchina del tempo o la reincarnazione per mezzo del cinema, insomma. Oppure, per usare un concetto più semplice, il cinema come terapia per risvegliare le coscienze insieme ai ricordi, e, si spera, dare a Nabua l’occasione di convivere con il suo ingombrante passato. Weerasethakul ha dato voce ai sopravvissuti, i figli di coloro che scomparvero oltre cinquant’anni fa, invitandoli a ripensare la storia di Nabua; realizzando un suo vecchio sogno, e perché l’analogia fra racconto e viaggio fosse ancora più evidente, ha costruito assieme a loro una navicella spaziale, a sua volta una metafora di come si possa costruire un nuovo mondo. La cosa più curiosa è però che, come chiarito dall’allestimento “Phantoms of Nabua”, Nabua viene chiamata dai locali la “città vedova”, ovvero senza uomini, a causa di un’antica leggenda relativa a un Phi Am, uno spirito-vedova che rapirebbe gli uomini che entrano nel suo regno per trasportarli altrove. Un altro modo per dire “ucciderebbe”, e una bella metafora di quel che accadde negli anni Sessanta per colpa del governo.
È la leggenda che ha precorso la realtà oppure essa stessa esiste per dar conto di quello che è il karma del villaggio di Nabua? Ma forse, come auspica il regista, il karma infine si potrà spezzare, liberando la città dalla vedova spettrale che la infesta.
Che la Tailandia si una terra piena di contrasti lo si capisce molto bene anche guardando “Tropical Malady” (2004), che è un film forse anche più misterioso, e fin dal titolo: l’originale “Sud Pralad” significa “mostro” oppure “strana creatura”, quindi non si capisce bene da dove derivi la traduzione utilizzata come titolo internazionale. Ma il film è noto anche come “Winyan”, altra traslitterazione di win-yaan – termine che, come abbiamo già visto in precedenza, significa “spirito”.
Entrambi, il titolo originale e quello in inglese, hanno comunque in sé qualcosa di morboso, insinuano un malessere che non potrà che acuirsi durante la visione, perlomeno in concomitanza con la seconda parte. “Tropical Malady” a mio avviso è ben più oscuro di “Lo zio Boonmee...”, sebbene in entrambi si veda la mano lieve, soave del regista, a detta di molti il suo vero marchio di fabbrica.
Nei suoi film si parla di fantasmi, sì, ma questo non significa che essi vogliano generare paura o soggezione, e se questo avviene è forse perché siamo noi a non essere avvezzi a considerare gli spiriti come qualcosa di naturale, facente parte di un mondo parallelo e contiguo al nostro e in grado talora di venirne in contatto. Quando in una scena uno dei due personaggi principali menziona quasi casualmente la visita, avvenuta tempo prima, di un suo zio in grado di ricordare le sue vite precedenti, scopriamo anche che “Tropical Malady” e “Lo zio Boonmee...” sono collegati: il primo contiene, in un certo senso, già il germe del secondo che sarà girato solo sei anni più tardi sebbene sia cronologicamente precedente (l’attore Sakda Kaewbuadee ricopre infatti lo stesso ruolo, quello di Tong, in entrambi i film).
“Tropical Malady” è diviso in due parti ben distinte, delle quali solo la prima è ambientata in un contesto (in parte urbano e in parte no) riconoscibile, “normale”. La seconda è un’immersione totale nella natura, ma non quella muta e in qualche modo addomesticata a cui siamo abituati: è una natura metafisica nella quale il confine fra ciò che è materiale e ciò che immateriale, realtà e sogno, vita e morte non è affatto chiaro né scontato. La prima parte racconta alcuni momenti della storia d’amore fra Keng, un soldato, e il più giovane Tong, un ragazzo di campagna che lavora in una fabbrica di ghiaccio. Sono scene di una quotidianità rassicurante, istantanee di un amore vissuto alla luce del sole riprese in un momento qualsiasi del suo incedere. L'ordinario cessa, si frantuma quando il regista si concentra su Tong, e benché il significato di quelle scene sia sfuggente, esse sembrano suggerire che il ragazzo abbia una sorta di vita parallela, o forse un lato oscuro.
In una di queste scene, all’inizio del film, Tong è nudo in mezzo alla campagna (benché il fatto che sia proprio Tong quell’uomo appare chiaro solo in seguito). Un’altra, la più enigmatica, è quella che chiude la prima parte del film: Keng e Tong hanno trascorso la giornata assieme, arriva il momento di separarsi e i due ragazzi si accarezzano e baciano le mani a vicenda. Quello è il momento in cui Tong, fino ad allora il più riservato dei due, si lascia andare. Keng è palesemente scosso da quell’atto così erotico, quasi famelico, osserva Tong allontanarsi nel buio e solo dopo un po’ si riscuote e se ne va in sella al motorino. Da lì in poi l’atmosfera muta completamente.
Voci ricorrenti parlano di una bestia feroce che proprio in quei giorni starebbe uccidendo il bestiame e terrorizzando il villaggio. Cosa significa? C’è un legame fra Tong e la bestia misteriosa? La risposta è celata nella seconda parte del film, ispirata alla leggenda di uno stregone mutaforma khmer, dove nel folto della foresta gli stessi attori interpretano un cacciatore e un essere che ora ci appare come una tigre e ora come un uomo nudo ricoperto di simboli magici. La tigre è davvero uno spirito-animale, oppure è uno sciamano che passa dallo stadio umano a quello bestiale e viceversa? Conosce il cacciatore, o comunque sa qualcosa che questi non sa? La sicurezza dell’uomo-tigre contrapposta alla confusione del cacciatore sembra indicare che i due si trovano in due stadi di evoluzione spirituale diversi (eppure, anche l’uomo-tigre mostra talvolta smarrimento e dolore, la sua solitudine altrettanto concreta del folto della foresta).
Sorge spontanea anche un’altra domanda: chi sta cacciando chi? Man mano che il cacciatore procede nella giungla, reso folle dai misteriosi fenomeni che lo attorniano, e che la bestia si insinua nei sogni di Keng (o dell’uomo che fu, o sarà, Keng) anche questo aspetto si fa meno chiaro; sembra, anzi, che il concetto stesso di caccia perda d’importanza, o meglio che le parti fra inseguitore e inseguito tendano continuamente a invertirsi, come del resto capita anche in molte storie d’amore. Non è forse vero che l’essenza della schermaglia amorosa è il rincorrersi, fino a che gli amanti non si fermino e decidano quale direzione prendere assieme?
Questa è dunque una storia d’amore ripresa in due momenti diversi (non necessariamente nell’ordine mostrato nel film, ma la questione è irrilevante) che si ripete nella ruota karmica, oppure si tratta di due versioni alternative della stessa storia? Tante domande, forse troppe, e nessuna risposta.
Purtroppo (o per fortuna) quella risposta resta al di fuori nella nostra portata. Restano, per certo, le suggestioni di un film che va a fondo nella tradizione spirituale di un paese lontano da noi, ove l’oscurità della giungla è lo spazio limite delle nostre certezze, ove il vero e il falso perdono di consistenza e tendono a sovrapporsi, dove si può vivere fianco a fianco con i fantasmi nell’attesa di diventare noi stessi dei fantasmi, o che a farlo siano i nostri ricordi.
Apichatpong Weerasethakul: Primitive |
Bellissimo!
RispondiEliminaAvevo sentito parlare de Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, più che altro per lentezza, ma non l'ho mai visto. Mi sa che sarà una visione solitaria, in quanto non troverò adepti intorno a me. ;-) Anche l'ultimo film mi attira molto. Mi sono sempre chiesta come mai le religioni orientali credano tutte nella reincarnazione, mentre la religione cattolica no... ma temo sia un discorso spinoso da affrontare.
Personalmente ho apprezzato entrambi i film (con una netta preferenza per “Tropical Malady”) ma quello di Weerasethakul è cinema contemplativo e temo che sarà sempre destinato a una nicchia di estimatori. Io però sono fortunato, ho una compagna che ha i miei stessi gusti ;-) Non vorrei fare discorsi troppo semplicistici, ma il cristianesimo ha poco più di duemila anni mentre altre religioni sono il retaggio di una saggezza più antica… detto ciò, ognuno naturalmente è libero di credere in quello che vuole :DD
EliminaCertamente! Io sono fermamente convinta nella reincarnazione anche a causa di esperienze personali molto forti. Insomma... sono una credente un po' borderline! ;-)
EliminaNon c'è nulla di male ad essere borderline. A me anzi pare un bel pregio! :D
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