martedì 4 ottobre 2022

The Ghost of Oiwa

Shunkosai Hokushu, 1826
Non poteva mancare in questo speciale un tuffo nel grande spettacolo della tradizione giapponese, alla ricerca delle origini delle spettrali figure di Kayako e Toshio. Già a tempi del nostro speciale “Ghost in the well”, che dedicammo quattro anni fa alla fortunata saga cinematografica di “Ring”, avevamo tentato un esperimento simile, giungendo infine alla conclusione che Sadako potesse identificarsi in Okiku, un personaggio leggendario le cui gesta vengono narrate in Giappone sin dal XVIII secolo all’interno di uno spettacolo teatrale dal titolo Banchō Sarayashiki (The Dish Mansion at Banchō). La correlazione tra Sadako e Okiku non fu ai tempi un’impresa troppo ardua, per essere onesti, considerato che il tragico destino di Okiku, gettata viva in fondo a un pozzo, fu palesemente lo stesso della protagonista di “Ring”. Più difficile è, al contrario, trovare una figura che si adatti così perfettamente a Kayako, considerata l’abbondanza di spiriti vendicativi nel folclore orientale (non solo giapponese). Cerchiamo quindi di riguardarci i film di Shimizu con carta e penna a portata di mano, appuntando quelle che possiamo considerare le caratteristiche salienti dei suoi personaggi.
L’episodio scatenante è un uxoricidio: Takeo Saeki uccide la moglie Kayako e il figlio Toshio in un eccesso di rabbia dovuto a una presunta (nella realtà mai verificatasi) relazione extraconiugale. Nella sua follia, Takeo uccide anche il gatto domestico e, se ci prestiamo attenzione, questo particolare potrebbe non essere del tutto irrilevante. 
L’atto di Takeo è l’elemento scatenante della maledizione: il fantasma vendicativo di Kayako, ben supportato da quello del figlio, colpirà in seguito chiunque venga a trovarsi coinvolto, anche marginalmente, con l’antica vicenda. È importante osservare che è Kayako il vero focus della nostra ricerca: essa, al contrario di Toshio, può benissimo reggere sulle sue spalle il peso della saga mentre, viceversa, Toshio è appena inquadrabile come una spalla, per quanto efficace, della madre. 
Sulla questione del gatto, in mancanza di elementi certi possiamo provare ad assegnargli uno scopo più che altro simbolico, in quanto è risaputo che il felino domestico (basti pensare al Bakeneko o al Nekomata) ha un legame molto stretto col mondo dei morti. 
Non è affatto casuale, quindi, che nella rappresentazione originale della vicenda di cui andremo tra breve a parlare Tsuruya Nanboku, uno dei più famosi drammaturghi kabuki del tardo periodo Edo, abbia messo in scena l’uccisione di un gatto. 

Utagawa Kuniyoshi, 1847
Tutti questi elementi, messi insieme, non possono che portarci in una direzione. Mettiamo quindi per un attimo da parte lo speciale dedicato al Ju-On cinematografico e avventuriamoci in una delle più affascinanti leggende del folclore giapponese, una leggenda che, nel corso dei secoli, ha fatto tremare intere generazioni. 
I tragici fatti di Yotsuya (Yotsuya Kaidan) sono alla base di una delle più antiche storie di fantasmi giapponesi di tutti i tempi, le cui origini risalgono a un tempo talmente remoto che il loro ricordo è andato a sfumarsi con il trascorrere dei secoli. 
L’antefatto ci introduce il personaggio di Tamiya Iemon, un ronin squattrinato un tempo al servizio di una casata ormai scomparsa. 
Lo osserviamo mentre sta avendo un’accesa discussione con l’anziano Inari Samon riguardo alla figlia di quest’ultimo, Oiwa, del quale Iemon è perdutamente innamorato. La discussione si trasforma ben presto in un litigio e Samon, che non intende concedere la mano della figlia a un samurai caduto in disgrazia, finisce per avere la peggio: Iemon, folle di rabbia, impugna la spada e gli trapassa il petto. 
Testimone del delitto è Naosuke, un perdigiorno ossessionato sessualmente da Osode, sorella di Oiwa, purtroppo per lui già sposata con un altro uomo, Satô Yomoshichi
È in questo preciso istante che Iemon e Naosuke si uniscono e iniziano a cospirare per indurre in errore Oiwa e Osode, facendo loro credere che vendicheranno i responsabili della morte del padre. Nel loro piano diabolico, i due trovano anche il modo di assassinare Yomoshichi, realizzando istantaneamente il desiderio di Naouske di assicurarsi i favori della giovane Osode, libera ormai da qualsiasi legame. 

Trascorrono gli anni e ritroviamo Iemon e Oiwa felicemente sposati, con un figlio di pochi mesi. Ho usato il termine “felicemente” in maniera impropria, visto la situazione economica in cui è precipitata la famiglia: incapace di trovarsi un lavoro, Iemon è costretto a farsi mantenere da Oiwa che, a tempo perso, qualcosa riesce anche a portare a casa. Le difficoltà finiscono per corrodere alla base il rapporto tra i due e Iemon, privato della sua dignità maschile, trova uno sfogo alle sue frustrazioni tra le braccia di Oume, la giovanissima nipote di un benestante signore locale. 
Non è questo, però, l’adulterio che stavamo cercando. La possibilità di trovare una sistemazione per sé stesso, dopo anni di tribolazioni, si fa largo nella mente e nel cuore di Tamiya Iemon. Se solo non esistesse Oiwa, egli potrebbe entrare a far parte di una famiglia agiata, con tutte le conseguenze (e il prestigio) che da tale unione potrebbe derivare. 
Ma Oiwa esiste, così come esiste anche un matrimonio. La soluzione? Niente di più semplice per uno che già in passato non ha esitato a sguainare la spada per far tornare i suoi conti. Il piano per liberarsi della moglie è diabolico: dapprima, con l’aiuto di Takuetsu, un losco figuro particolarmente sensibile al denaro, Iemon ottiene potentissimo veleno che offrirà a Oiwa spacciandolo per una crema per il viso. 
Quest’ultima, rapita da quel gesto di apparente riconciliazione, applica subito la sostanza sul proprio volto rimanendo, in men che non si dica, orribilmente sfigurata. Oiwa sopravvive, ma non per molto: per evitare spiacevoli ripercussioni sul proprio onore, Iemon convince Takuetsu a penetrare in casa in sua assenza e a violentare Oiwa. In questo modo egli, fingendo di sorprendere i due in un’improbabile relazione extraconiugale, si sentirà autorizzato a sciogliere il matrimonio. 

Utagawa Kunikazu, 1862
Ecco quindi servito l’adulterio (il falso adulterio, per essere precisi) che unisce Oiwa alla protagonista di Ju-On. Le cose, tuttavia, non andranno nel verso giusto: Takuetsu fallisce nell’intento, Oiwa diventa isterica e, raccolta una spada, si scaglia conto il suo aggressore. Nel fervore della colluttazione, però, Oiwa ferisce se stessa a morte e mentre giace sanguinante di fronte a uno sbalordito Takuetsu maledice il nome di Iemon. Sentendosi prossima alla fine, Oiwa si avvicina al bimbo nato da quell’unione maledetta e lo soffoca, con l’intento di causare un dolore insanabile nel marito traditore. La prima vittima innocente della furia vendicativa di Oiwa è quindi già caduta. 
Negli ultimi istanti di vita della donna, il mancato stupratore rivela a Oiwa tutti i retroscena, inclusi i fatti che portarono alla morte del di lei genitore. Oiwa muore così livida di rabbia e di rancore. E sappiamo già bene cosa ciò possa significare. 
I tasselli del puzzle sono già praticamente tutti al loro posto. L’unico personaggio che ancora non trova una sistemazione è Toshio, che nella leggenda originale è troppo piccolo per rendersi conto di ciò che sta accadendo. Nella sua vendetta post-mortem Oiwa troverà però un valido alleato nel pentito Takuetsu, che, passato a fil di spada da un rientrante Iemon, si rivelerà decisivo. Al cinema possiamo quindi identificare Toshio nella figura di Takuetsu.
Curioso il dettaglio che ci rivela il modo in cui Iemon si libera dei cadaveri della moglie e del presunto amante: al fine di rendere noto agli occhi dei concittadini il legame tra Oiwa e Takuetsu, egli ordina al suo storico compare di inchiodare i corpi dei due ai lati opposti di una porta e di gettare la porta stessa in un fiume. Si trattava chiaramente di un’usanza molto diffusa nel periodo Tokugawa, attraverso la quale si potevano facilmente “risolvere” matrimoni indesiderati senza grosse conseguenze. Iemon e Oume, come da programma, convolano a “giuste” nozze, ma la loro felicità non durerà che poche ore. 
Nel corso della prima notte di nozze la furia dello spettro di Oiwa si scatena e tutti i membri della nuova famiglia di Iemon, inclusa la servitù, vengono annientati in un’orgia di sangue nella quale non viene più fatta alcuna distinzione tra vittime, carnefici e ignari comprimari. 
Il destino di Iemon si compirà per mano di un redivivo Yomoshichi ma, come era prevedibile, non prima che egli precipiti nella follia. Il cognato, al contrario della sorella, non verrà ovviamente risparmiato. 

Gli attori Bandô Hikosaburô V e Kataoka Nizaemon VIII interpretano i ruoli del fantasma di Tamiya Oiwa e Tamiya Iemon in una scena del dramma "Tôkaidô Yotsuya Kaidan", andato in scena nel 7° mese lunare del 1861 al Nakamuraza (stampa realizzata da Utagawa Toyokuni III)
Tōkaidō Yotsuya Kaidan
, nota anche in Occidente come The Ghost of Oiwa, The Ghost Stories at Yotsuya o Yotsuya Ghost Stories, è una delle più famose storie di fantasmi giapponesi tradizionali, basato su un racconto popolare risalente al 1727 e che ha tratto ispirazione da fatti realmente accaduti un secolo prima. La vicenda è stata oggetto di numerose xilografie e dipinti ukiyo-e, ed è stata adattata innumerevoli volte al cinema e a teatro, come vedremo meglio nel prossimo articolo. 
Il fulcro della vicenda è identificabile con il momento esatto della morte della protagonista, qualunque ne sia la causa (su questo aspetto le versioni si sprecano). Quando Oiwa muore, l'equilibrio in qualche modo conservato fino a quel momento viene interrotto. Significativamente, quando la rabbia di Oiwa si scatena appaiono dei serpenti, animali dalla natura ambivalente che rappresentano appunto lo scontro tra le forze del bene e quelle del male. 
La vendetta di Oiwa potrebbe essere considerata una conseguenza naturale, quasi karmica, delle azioni di Iemon, ma la sua inarrestabile sete di sangue, come la motivazione impura dietro il matrimonio con Iemon (lo aveva in fondo sposato solo per avere qualcuno che vendicasse la morte di suo padre), indicano che tutti abbiamo un lato chiaro e un lato oscuro nel nostro cuore. Ogni luce crea un’ombra, e ogni omote - il lato anteriore - ha necessariamente un ura - un lato nascosto. 
Oggi, nel mondo moderno, possiamo considerarla una storia moralistica: in una cultura in cui le donne ancora non hanno praticamente armi legali contro i mariti violenti, "The Ghost of Oiwa" mette in guardia sulle conseguenze soprannaturali della crudeltà contro le donne. Nel periodo Edo, tuttavia, un fantasma femminile poteva esistere solo in combinazione con la mostruosità, come un revenant deforme che non apparteneva più alla società umana. Una mostruosità in cui venivano portati alla luce tutti i tratti presumibilmente maligni delle donne, mentre allo stesso tempo gli autori (maschi) di tali storie cercavano di placare ogni preoccupazione riguardo allo stato spirituale dei morti infelici dando al misterioso una forma familiare, anche se terribile. Una storia che rappresenta il background culturale dei fantasmi femminili che hanno popolato per decenni gli schermi cinematografici asiatici, e che ritroviamo più o meno con le medesime caratteristiche anche nelle metafore spettrali del Pontianak indonesiano e del Mae Nak Phra Khanong tailandese.



Il presente articolo è parte di un vasto progetto che ho voluto chiamare Hyakumonogatari Kaidankai (A Gathering of One Hundred Supernatural Tales) in onore di un vecchio gioco popolare risalente al Giappone del periodo Edo (1603-1868) e, di  tale progetto,  esso rappresenta la parte 47 in un totale di 100.
Se volete saperne di più vi invito innanzitutto a leggere l'articolo introduttivo e a visitare la pagina statica dedicata, nella quale potrete trovare l'elenco completo degli articoli sinora pubblicati. L'articolo è inoltre parte del progetto "Ju-On, speciale rancore" che è iniziato qui lo scorso 7 settembre. Buona lettura! P.S.: Possiamo spegnere la 47° candela...

6 commenti:

  1. Quando ho visto le ukiyo-e ho subito "intravisto" la scena teatrale. Ecco, la messa in scena della storia sul palco del Kabuki la vedrei volentieri, molto più che nella forma di un moderno film horror.

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    1. Eh, piacerebbe anche a me vedere uno spettacolo Kabuki dal vivo; e non necessariamente uno sulla leggenda di Oiwa.

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    2. Dall'11 ottobre il governo giapponese semplificherà ulteriormente le procedure di ingresso a scopi turistici in Giappone... il teatro Kabuki potrebbe non essere così lontano. Lo yen è pure debole al momento.

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    3. Eh si, lo so, ma con tutto quello che sta accadendo in giro, non sono nel mood più adatto per pensare a una vacanza...

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  2. Post interessantissimo.

    Quando fruisco di storie dell'orrore giapponesi (e storie in genereale) mi rendo sempre conto che, per lo meno al primo impatto, le guardo con occhi da occidentale inevitabilmente. In un secondo momento realizzo di essermi purtroppo persa qualcosa che non sempre riesco a recuperare. Mi è successo recentemente con La casa impura di Ono Fuyumi.

    Anche leggendo questo post, mi sono resa conto che alcuni aspetti della figura di Oiwa mi sono sfuggiti in prima istanza.

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    1. Sul fatto che possano esserti sfuggiti taluni aspetti di Oiwa leggendo questo post, direi che c'è un'alta probabilità che la colpa sia mia che l'ho scritta male. Più in generale è vero che se non si dispone di una buona conoscenza della cultura giapponese (ma non credo sia il tuo caso) risulta difficile cogliere l'horror in gesti apparentemente banali.
      Mi hai incuriosito con "La casa impura" (che non conoscevo) ma vedo che Amazon lo propone ad un prezzo decisamente illogico per un libro, per cui mi sa che mio malgrado mi tocca desistere.

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