mercoledì 21 dicembre 2022

Buon periodo di chiusura invernale!

Uno degli aspetti più inquietanti di questo 2022 che volge al termine è la crescita esponenziale di un'ossessione, quella del politicamente corretto o, per meglio dire, quella del follemente corretto. In un tripudio di termini che non si possono più utilizzare per non urtare la sensibilità di quella parte di popolazione che qualcuno si ostina a chiamare "minoranza", si finisce per scivolare nel più clamoroso ridicolo.

giovedì 15 dicembre 2022

Embaraço

Avevamo aperto questo 2022 con l’analisi di un film di Fernando Rick e lo chiudiamo con l’analisi di un altro film di Fernando Rick. Vi garba l’idea? In linea del tutto teorica l’idea potrebbe anche piacervi, ma quando vi sarete ricordati di quale film scrissi qua sopra lo scorso gennaio, allora probabilmente vi saliranno i primi conati di vomito. Non esauriteli, perché oggi ne avrete ancora bisogno. “Feto morto”, prodotto e diretto in Brasile nel 2003, era un’opera che sembrava realizzata su misura per la rubrica “Obsploitation Vomit”, ovvero quell’accozzaglia di recensioni di titoli ai quali la definizione “Extreme” va decisamente stretta. 
La visione di quel film non aveva poi fatto altro che confermare quella mia prima intuizione, film che mi trovai a definire come “cinema dell'oltraggio e dell'abiezione, un'accozzaglia politicamente scorretta di violenza e nudità gratuite realizzata, tra una birra e l'altra, da un gruppo di esordienti dall'umorismo nero e tagliente”. Nonostante ciò, calandolo nel giusto contesto, una lettura interessante riuscii anche a imbastirgliela, arrivando addirittura a paragonare il regista brasiliano a un tizio del calibro di Kenneth Anger, uno che di sovversioni e di perversioni ha sempre avuto molto da insegnare.

venerdì 9 dicembre 2022

Cose che succedono la notte

"L’uomo pensò alla neve che seppelliva tutto e gli venne in mente che un anno, da quelle parti, equivaleva a un giorno: metà trascorreva al buio, metà illuminato dalla luce, e l’inverno, in fondo, non era che una notte, una lunga notte seguita da un lungo giorno". (Peter Cameron)

Questo libro è fatto di buio e di neve. Di un treno nella notte, e di una coppia senza nome che scende in una stazione deserta del Grande Nord. Di un immenso, lussuoso albergo nel cuore di una foresta. Delle sue stanze chiuse, dei suoi infiniti corridoi, dell’isola di luce del suo bar. Dei suoi ambigui ospiti – una vecchia cantante che tutto ha visto, e un losco uomo d’affari con un suo crudele disegno. E ancora, di un sinistro orfanotrofio, e di un enigmatico guaritore. Non tutti gli scrittori avrebbero saputo trasformare questa materia in un avvincente, misterioso romanzo. Ma Peter Cameron, questo nel tempo lo abbiamo imparato, è uno scrittore a parte. (Dalla quarta di copertina)

sabato 3 dicembre 2022

Smuttynose Axe Murders (Pt.2)

LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Nel 1866, John e Maren Hontvet, come molti loro connazionali, lasciarono la Norvegia per cercare fortuna in America. Trascorsero i primi anni a Boston e, non appena se lo poterono permettere, si spostarono lungo la costa, dove acquistarono una casa sull'isola di Smuttynose, nelle isole di Shoals, appartenente allo Stato del Maine, ma geograficamente più vicina al New Hampshire. 
John comprò una goletta da pesca e con il passar del tempo riuscì a mettere da parte una piccola fortuna, sufficiente a far arrivare dalla Norvegia suo fratello Mathew e la sorella di Maren, Karen Christensen
Mathew fu di grande aiuto nell’attività di John, ma il lavoro cresceva a vista d’occhio e quest’ultimo in breve si rese conto di aver bisogno di una terza persona. Nella primavera del 1872 offrì un lavoro a Louis Wagner, un immigrato prussiano che viveva a Portsmouth, nel New Hampshire, in cambio di vitto e alloggio.

domenica 27 novembre 2022

Smuttynose Axe Murders (Pt.1)

Maren Hontvet
La donna saltò fuori dalla finestra nel momento esatto in cui lui faceva oscillare l'ascia, colpendo il davanzale con così tanta forza che la testa dell'ascia si staccò. Atterrò nella neve fresca e prese a correre più velocemente che poteva. A piedi nudi, corse velocemente nella neve, alla ricerca di un posto dove nascondersi. Vide il proprio cane, Ringe, che le correva incontro abbaiando. Lo prese in braccio, temendo che i suoi latrati potessero tradire la sua posizione, e lo portò con sé. Inizialmente pensò di nascondersi nel pollaio lì accanto, ma l’idea era troppo ovvia. Sarebbe stato quello il primo posto dove lui l’avrebbe cercata. Decise quindi di correre verso il molo, pensando di poter fuggire dall'isola con la barca con cui quell’uomo era di certo arrivato, ma non c'era nessuna barca. Probabilmente era approdato dall'altra parte dell'isola e aveva raggiunto l’abitazione a piedi, reso invisibile dalla complicità di quella notte senza luna. Proseguì verso la scogliera, indifferente alle ferite che le si aprivano sui piedi scalzi. Trovò infine un riparo tra delle rocce che, a colpo d’occhio, potevano offrirle quel minimo di sicurezza. Lì, scalza e in camicia da notte, con solo il cane a donarle un po’ di calore, attese fino all'alba. 

lunedì 21 novembre 2022

Il giovane Holden

“Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira.” 

Esistono innumerevoli ragioni perché un romanzo si debba o non si debba leggere. Ne esistono altrettante perché si debba rimandarne il più possibile la lettura, che è poi quello che ho fatto io con “Il giovane Holden”. La ragione principale, tuttavia, è che si tratta di un libro che hanno letto in tanti, in troppi, e ciò può generare un impulso di attrazione o di repulsione, a seconda che ci si senta più o meno portati a uniformarsi. Oltre a ciò, esiste un livello di curiosità che in questo caso è ai massimi livelli. Abbiamo fra le mani la nostra edizione de “Il giovane Holden” e ciò che vediamo non è altro che una copertina bianca, con su scritto solamente il nome dell’autore e il titolo del romanzo. Non una parola in quarta di copertina, ancora meno nei risvolti interni (quando ci sono). Si dice che fu lo stesso Salinger a pretendere che il suo libro avesse una copertina completamente vuota perché, spiegava, voleva che i lettori non fossero guidati da un’immagine nella scelta del libro e che lo scegliessero solo per la curiosità di scoprirne i contenuti. Oggi questa cosa la chiameremo “originalata di marketing”, ma ai tempi di Salinger forse l’idea era in qualche modo sincera. 

martedì 15 novembre 2022

Traditi dalla fretta #32

Dopo oltre due mesi in cui The Obsidian Mirror è stato monopolizzato dallo Speciale Ju-On, eccoci tornati alla normalità (se di normalità, in questo mondo impazzito, è ancora possibile parlare). Mi sento quasi meschino a scarabocchiare stupidate quando tutto là fuori sta andando a rotoli, ma quello che che leggerete da qui alla fine dell'anno, sono in realtà cose già pronte e che vado a pubblicare più per inerzia che per un reale desiderio di aggiornare il blog. Unica eccezione è la puntata di "Traditi dalla fretta" che va in onda oggi che, per ovvi motivi, scrivo oggi in fretta e furia a poche ore dalla sua effettiva pubblicazione sul blog.
In altri momenti non avrei mancato un accenno, anche di sfuggita, a due tra gli eventi che in questa stagione calamitano l'attenzione di tutti gli appassionati del fantastico in Italia, vale a dire l'appuntamento milanese con Stranimondi e quello toscano di Lucca Comics, ma la verità è che entrambi mi sono passati davanti agli occhi mentre ero girato e quando me ne sono ricordato erano ormai ben lontani all'orizzonte. Pazienza. Sarà per il prossimo anno o, se non per quello, per quello dopo. Sarà probabilmente per il giorno in cui mi scrollerò di dosso questa strana sensazione, come dire, di vivere disallineato (troppo in anticipo o, se preferite, troppo in ritardo) dai miei tempi. E chissà se il Natale, ormai dietro l'angolo a giudicare dalle prime lucette che già si vedono in giro, non mi possa regalare un po' di sincronia. 

mercoledì 9 novembre 2022

Oltre ogni rancore

A curse of one who dies with strong resentment accumulates in the place where the dead were while alive and turns into "Karma". He who comes in contact with the curse loses his life, and a new curse is born. 

Secondo Ju-On, quando una persona muore in uno stato di profonda rabbia, nasce una maledizione. La maledizione si concentra nel luogo in cui tale persona è morta e lì si ripete senza tregua. Lo spirito del defunto infesta tale luogo, uccidendo con qualsiasi mezzo chiunque si avvicini ad esso, sia colui che lo fa fisicamente, sia colui che per caso entra in contatto con chi è già stato colpito dalla maledizione. In entrambi i casi la conseguenza è inevitabilmente la morte, e ogni nuova morte può far nascere una nuova maledizione e diffonderla in altri luoghi. 

sabato 5 novembre 2022

2020: nuovi rancori

Qualche giorno fa avevamo cercato di analizzare, seppur ormai immersi in un cinema horror ormai quasi totalmente globalizzato, le differenze stilistiche nella rappresentazione dei fantasmi orientali e dei fantasmi occidentali. Avevamo concluso che le costruzioni ormai stereotipate di entrambi i generi non obbligano ormai più gli spettatori a una profonda familiarità con una cultura straniera ma, al contrario, l'ambientazione, la trama e molte delle caratteristiche stilistiche dei film offrono spunti sufficienti per trovare in esso qualcosa di estremamente familiare. Nonostante ciò, appare incredibile come opere come The Ring o The Grudge siano riuscite a ottenere così tanti consensi in Occidente, in quell’Occidente che tende a vedere il cinema dell'orrore come un prodotto a buon mercato, un prodotto usa e getta, adatto solo a regalarci qualche spavento e a spegnerci il cervello per un’ora e mezza. In Oriente sembrano avere una visione completamente diversa del genere: a loro piace creare un'aura, una sensazione di terrore, che magari non fa saltare lo spettatore sulla sedia ma che gli farà pensare a ciò che ha appena visto per molti giorni. In breve, in Oriente realizzano film horror per adulti e non per adolescenti.

martedì 1 novembre 2022

Breve storia dell'ira

Il Bodhisattva Vajrapani
Abbiamo parlato di odio, ma resta da fare un piccolo passo indietro e domandarsi che cosa gli permetta di germogliare e crescere, perché è evidente che un sentimento così devastante non può sedimentare in un animo sereno, ma attecchisce solo laddove lo spirito sia predisposto all’ira. Tutti conosciamo quella profonda alterazione dello stato emotivo che è il sintomo di un’avversione profonda; la sua caratteristica è la distruttività, perché si manifesta sempre in modo violento e talora non si esaurisce neppure con l’annientamento di chi o di ciò che lo ha generato, finendo per alimentarsi da sé in una spirale infinita.
Le due religioni più diffuse in Giappone vedono l’ira in maniera differente. 
Lo Shintoismo non ha dogmi veri e propri e quindi non si occupa nello specifico della questione, ma il suo fine è fornire una serie di insegnamenti positivi che in parole semplici possono essere riassunti nel condurre una vita semplice e gioiosa in armonia con le persone e la natura, il che include naturalmente anche la correttezza nei rapporti personali e il dare il giusto valore ai sentimenti degli altri. Non seguire questi precetti porta a divenire (e rimanere) impuri, ma ha effetti funesti anche sugli altri. Difatti, per lo Shintoismo le anime felici alla morte diventano spiriti ancestrali, mentre chi muore in preda all’angoscia diventa un fantasma (yūrei); in particolare, chi perisce per mano altrui non può trovare la pace, ma sarà pervaso dal rancore (urami) e diventerà uno yūrei, uno spirito rancoroso in cerca di vendetta, oppure un funayūrei, se morto in mare, o un goryō, se proveniente dalle classi aristocratiche. 

venerdì 28 ottobre 2022

Manga, libri e altri Ju-On

Non è ancora tempo di far scendere i titoli di coda su questo speciale, scrissi in chiusura del post precedente. C’è in effetti ancora un po’ di materiale di cui vale la pena parlare, fermo restando che un’analisi esaustiva di tutto ciò che ruota attorno a un franchise iniziato ormai oltre vent’anni fa è praticamente impossibile. Oggi ci discostiamo un attimo dalle versioni in celluloide di Ju-On e volgiamo lo sguardo a media diversi che, in un business plurimiliardario come quello di cui stiamo parlando, non potevano certo mancare. 
Dopo aver dedicato qualche giorno fa un articolo al videogame Wii, rivolgiamo oggi lo sguardo alle “versioni cartacee” di Ju-On. Come forse alcuni di voi ricorderanno, i libri avevano giocato una parte fondamentale nell’universo di Ring: fu anzi proprio grazie alle opere di Kōji Suzuki che tutto ebbe inizio. 
La trilogia “Ring” (Ringu, 1991), “Spiral” (Rasen, 1995) e “Loop” (Rūpu, 1998) fu infatti la fonte che Hideo Nakata utilizzò per scrivere il soggetto dei suoi film (in seguito arrivò una seconda trilogia, di cui abbiamo però parlato ampiamente qui). Qui il discorso è diametralmente inverso: tutto nasce dall’ispirazione di Shimizu e solo in seguito arrivarono dei libri. In gergo tecnico l’operazione di chiama novelization, termine che identifica un romanzo che adatta la storia di un'opera creata per un altro mezzo, come un film, un fumetto o un videogioco.

lunedì 24 ottobre 2022

Sadako Vs Kayako

Era inevitabile che prima o poi il post odierno sarebbe arrivato. Era nell’aria dalla fine di settembre del 2016, dal giorno cioè in cui tirai le fila e misi la parola fine a uno degli speciali più complessi mai apparsi qui su Obsidian Mirror
Sto parlando ovviamente dello speciale Ghost in the Well, ovvero quel lungo percorso in cui ci addentrammo in un franchise che, senza girarci troppo attorno, possiamo considerare il “gemello” di questo. I motivi per definirlo gemello sono molteplici: entrambi affondano le loro radici in leggende giapponesi risalenti al periodo Edo; entrambi hanno riscosso i primi successi sui palcoscenici Kabuki; entrambi sono stati ideati, guarda caso negli stessi anni, da registi che ne hanno fatto il proprio marchio di fabbrica; entrambi sono stati esportati e apprezzati in Occidente; entrambi raccontano di un defunto la cui anima è rimasta intrappolata nella nostra realtà da una sete di vendetta; entrambi estendono il loro rancore a macchia d’olio, colpendo indistintamente dove capita. Entrambi i franchise, inoltre, sono stati riproposti fino alla nausea e continuano ostinatamente a sopravvivere come le maledizioni che essi descrivono.
Oggi, ormai tardo 2022, ancora vengono annunciati futuri capitoli e prima o poi, inevitabilmente, ci ritroveremo di nuovo al cinema, in parte speranzosi di nuovi sussulti e in parte rassegnati, ma in qualche modo masochisticamente preparati a subire l’ennesima sconfitta.

giovedì 20 ottobre 2022

Ju-On: 3 & 4

Sono trascorsi altri cinque anni e nessuno ormai si aspetta un nuovo capitolo di Ju-On. Troppo tempo è passato, il cinema dell’orrore guarda ormai in altre direzioni e, aspetto niente affatto trascurabile, i due capitoli celebrativi del 2009 non hanno avuto da pubblico e critica quel riscontro che ci si aspettava. In Giappone qualcuno sta però trafficando nell’ombra per mantenere disperatamente in vita la saga, ed ecco che il 26 febbraio 2014, nel corso di una conferenza stampa tenutasi al Santuario Akagi a Tokyo (il cui momento clou è stata una cerimonia di purificazione per placare gli spiriti), viene annunciato “Ju-On; the beginning of the end”, conosciuto in patria anche con il titolo di “Ju-On 3”, sottolineando in tal modo un collegamento diretto con le opere originali, a discapito dei discutibili esperimenti a stelle e strisce del decennio precedente. 
Alla conferenza stampa farà seguito un teaser trailer rilasciato il 14 marzo, e il trailer cinematografico rilasciato il 9 maggio. “The beginning” debutterà sul palcoscenico internazionale il 30 luglio nell’ambito del Fantasia Film Festival di Montreal. 
Ammetto che la mia prima reazione ai tempi non fu delle migliori. La possibilità che qualcosa di buono potesse mai essere aggiunto a una saga che aveva già esalato più volte l’ultimo respiro mi pareva del tutto improbabile. Lo stesso titolo (“Ju-On: l’inizio della fine”) è qualcosa che già di per sé non promette niente di buono, e non solo perché “inizio della fine” a me fa pensare al primo passo in direzione di una morte orribile, ma anche perché giudico insopportabili tutti quei film, sequel di qualcos’altro, che promettono di essere l’ultimo capitolo e poi non lo sono mai. In particolare, il titolo di questo nuovo capitolo comunica esplicitamente due cose: 1) la serie è in prossimità del traguardo e 2) a sua volta è l’inizio di qualcosa. Se la prima promessa si regge, come vedremo, sul nulla, la seconda si avvererà già l’anno successivo con “Ju-On: the final curse”, che analizzeremo in questo stesso articolo. Ma torniamo a noi. 

Ho conservato “The beginning” e “The final” su un hard disk per anni prima di trovare il giusto stimolo per una visione. In altre parole, li ho guardati solo perché ne avevo bisogno per scrivere questo speciale, altrimenti sarei andato avanti per la mia strada senza grandi rimorsi. A posteriori sono state visioni interessanti, molto lontane dalla tragedia che mi ero figurato, e ciò per il tentativo, a mio parere piuttosto ben riuscito, di inventare qualcosa di nuovo. 
Iniziamo col dire che, a dispetto del titolo alternativo “Ju-On 3” qui siamo di fronte a un completo reboot della saga. Ciò però non significa che sia possibile ignorare tutto il resto e godersi “The beginning” come fosse un’opera a sé stante. Oddio, in parte è anche possibile, ma verrebbero a mancare delle basi fondamentali per apprezzare alcuni simpatici passaggi che, come vedremo, riescono a spezzare la drammaticità di alcune situazioni strappando allo spettatore una risata (ed è successo anche a me, che sono uno che non ride mai). 

Come sempre prodotto da Takashige Ichise, che qui per la prima volta firma anche la sceneggiatura, “The beginning” è il primo film del franchise che non vede in alcun modo la partecipazione di Shimizu. Dietro la macchina da presa troviamo invece Masayuki Ochiai, affermato regista di classici J-horror come “Infection” (2004) e “Shutter” (2008) oltre che della trasposizione cinematografica (datata 1997) di “Parasite Eve” di Hideaki Sena, uno dei più celebri romanzi di fantascienza giapponese, a sua volta sfociato in un multimedia franchise impressionante (ne abbiamo parlato molto tempo fa anche qui sul blog). 
Direttore della fotografia è il semi-esordiente Hirofumi Okada, che sceglie di darci un’atmosfera molto più luminosa, contrastando i colori più scuri dei due film precedenti. Come da tradizione, “The beginning” conserva la struttura a segmenti presentati in ordine cronologico sparso: Yui, Nanami, Kayako, Yayoi, Rina, Aoi, Naoto e Toshio. La vera novità è che qui la trama si concentra maggiormente sul personaggio di Toshio anziché su quello di Kayako, anche se quest’ultima ha ancora un ruolo non trascurabile. Altra novità è che vengono rivelate per Toshio delle origini completamente diverse. Tecnicamente non è nemmeno il figlio dei Saeki, o per dirla in altro modo, come vedremo, entra a far parte della famiglia solo successivamente e in maniera tutt’altro che canonica. 
Questo particolare è molto più rivoluzionario di quanto non possa sembrare di primo acchito, perché gli autori di “The beginning” ci stanno indirettamente già dicendo che Kayako e il marito Takeo cadranno essi stessi vittime di una maledizione già in essere e che non ha nulla a che fare con la morte violenta di Kayako. 

Tokyo, 1995: dopo la denuncia di un abuso su minori avvenuto all’interno della famiglia Yamaga, l'assistente sociale e insegnante Mitsuko Yoshizaki, il fotografo Yamamoto e un agente di polizia entrano nella loro abitazione e la trovano in uno stato di disordine allucinante. Entrano nella camera da letto del secondo piano e scoprono un ragazzino, Toshio Yamaga, chiuso nell’armadio con mani e piedi legati. Mentre Yoshizaki e l'agente di polizia corrono fuori per chiedere aiuto, Toshio si alza e uccide il fotografo. Una scena che, trasportata al di fuori dell’universo Ju-On, non avrebbe assolutamente senso (un poliziotto che fugge di fronte a un bambino è difficile da digerire), ma in questo contesto l’accettiamo più che volentieri. Anni dopo la casa che fu degli Yamaga viene messa in vendita dall'agente immobiliare Kyosuke Takeda a un prezzo stracciato a causa di strane voci su una possibile presenza di fantasmi al suo interno. Una coppia senza figli sembra apprezzare in maniera particolare il rapporto qualità/prezzo dell’immobile e, senza preoccuparsi troppo delle chiacchere, accetta entusiasticamente di acquistarlo: stiamo parlando di Takeo e Kayako Saeki, due persone normalissime che vengono trascinate negli abissi dell’orrore nel momento esatto in cui mettono piede in casa. 
Tutto questo già basterebbe per promuovere a pieni voti questo nono capitolo del franchise, anche se per uscire dalla tradizione giapponese dei Ju-On si è finito per entrare in quella americana degli Amityville (la classica coppia che compra casa a prezzo di favore per poi trovarci la sorpresa). 
Che la casa fosse a quel punto già infestata ce lo conferma Aoi, la sorellina della moglie di Kyosuke che assieme alle amiche Rina, Yayoi e Nanami si era avventurata per gioco nell’edificio disabitato e si era tirata addosso l’ira di Toshio. 
Non starò qui a descrivere nei particolari i destini delle quattro ragazzine, ma è interessante notare come alcune moriranno in maniera molto più “fisica”: se in passato le morti avvenivano quasi esclusivamente a causa di un terrore insopportabile, qui assistiamo, seppur parzialmente, a robe cruente tipo una mascella strappata (che è poi un sottile riferimento al film originale). 

Tornando a Takeo e Kayako Saeki, ci vengono rivelate le loro difficoltà nell’avere figli. Il problema si “risolve” il giorno che lo spirito di Toshio Yamaga si introfula nel corpo di Kayako. Nove mesi più tardi viene al mondo un bel bambino a cui viene dato nome, indovina un po’, Toshio Saeki, un bambino normalissimo che cresce e, raggiunta l’età giusta, inizia ad andare a scuola. 
Facciamo la conoscenza di Yui, una ragazza che ha sempre desirato fare l’insegnante e alla quale, miracolosamente, viene offerta la possibilità di fare supplenza nella classe di Toshio. Il precedente insegnante, Konishi, era svanito nel nulla dopo essersi recato a casa Saeki con l’intento di chiarire i motivi dell’assenza prolungata del ragazzino. Il solo fatto che Yui prenda possesso della cattedra di Konishi è sufficiente ad attirare su di sé quell’inarrestabile maledizione che perdura da ormai una decina di film. 
Non entrerò in ulteriori dettagli, anche perché ormai li ritengo superflui, ma è necessario precisare che, nonostante la drastica alterazione dell’incipit, il film torna ben presto sui suoi corretti binari: il giorno in cui Takeo scopre di non essere il padre naturale di Toshio, la follia prende il sopravvento e il consueto familicidio ha inizio. 
Avevo scritto poc’anzi che in “The Beginning” Kayako avrebbe avuto un ruolo secondario rispetto a quello della creatura da lei partorita. Ebbene, questo cambio di ruolo è suggerito anche dal modo in cui i personaggi entrano in scena: mentre nei lungometraggi di Shimizu i personaggi incontrano prima Toshio, credendolo un bambino normale, in questo nuovo capitolo è Kayako ad accogliere Konishi (e successivamente Yui) a casa sua. Altra particolarità di quest’ultimo capitolo, e qui per un cultore del franchise è facile cogliere la vena ironica, è la parte in cui si attende con trepidazione la scena madre in cui Kayako scende rantolando dalla scalinata: in questo caso il regista sorprende tutti e ci offre un’originalissima Kayako che si trascina sulle scale in salita. E vi assicuro che questa scena da sola vale tutto il film. Finale aperto che ci mostra una Yui in lacrime di fronte a ciò che resta del suo fidanzato. Non ci resta che attendere il prossimo capitolo che, come ampiamente previsto, non tarderà ad arrivare.

Non trascorre infatti nemmeno un anno dal capitolo precedente e nel mese di marzo 2015 viene annunciato “Ju-On: the Final Curse”, ovvero quello che il mondo intero auspica possa rappresentare l’epilogo di una saga ormai alle corde e che sopravvive solo grazie all’accanimento di un pugno di inarrestabili filibustieri del botteghino. Il titolo in effetti promette bene, ma esperienza insegna che di “final” in queste cose non c’è mai nulla. In fondo, volendo, basterà semplicemente cambiare l’aggettivo e ottenere capitoli ancora più finali di “final”, come ad esempio si potrebbe fare grazie a parole come “terminale”, “estremo”, “supremo”, “sommo”, “culminante”, “definitivo”, “decisivo” o “irrevocabile”.
Come fu per “The Beginning” anche per “The Final”, in conferenza stampa, si è assistito al solito siparietto della cerimonia di purificazione volta a placare gli spiriti (lungi da me trattare ironicamente questa pratica, ma diciamo che all’undicesimo film ormai avrebbe dovuto esser chiaro che nessuno spirito intendeva mettersi di traverso). 
In patria il film è conosciuto anche con il titolo di “Ju-On 4”, sottolineando ancora una volta la totale indifferenza del popolo giapponese per le boiate a stelle e strisce del decennio precedente. “The Final Curse” debutterà nel mese di luglio, ancora una volta in perfetto sincrono con il Fantasia Film Festival di Montreal. 

Al termine di “The Beginning” avevamo lasciato una piangente Yui alle prese con ciò che era rimasto del suo fidanzato. Avevamo pochi dubbi sul fatto che anche lei fosse rimasta vittima della maledizione, e infatti così è stato. Facciamo invece subito la conoscenza di Mai, sorella di Yui, che, preoccupata della sua scomparsa, va a cercarla, e ignara del rischio di poter diventare lei stessa il prossimo bersaglio inizia a indagare. Il passaggio da un film all’altro, come avrete certamente notato, è identico a quello già visto nel secondo Grudge americano, nel quale Karen Davis (Sarah Michelle Gellar) appare brevemente all’inizio per poi lasciare tutta la scena alla sorella Aubrey. 
Il fantasma di Yui inizia ad apparire a Mai, spesso curiosamente al fianco di Toshio, guidandola nelle indagini e dandole indizi sul suo destino. In tutto questo, un perseverante Toshio, rimasto orfano, viene adottato dalla zia paterna, che vive con la figlia adolescente Reo. Quest’ultima decide di ficcare il naso (cosa che mai si dovrebbe fare in un film di Ju-On), e assieme alle sue amiche Midori e Madoka finisce per scoprire cosa è successo agli zii. Nel frattempo, Kyosuke Takeda, l’agente immobiliare sorprendentemente sopravvissuto al precedente episodio, decide di demolire la casa dei Saeki nella mal riposta speranza che ciò possa fermare la maledizione. A questo punto non credo ci sia la necessità di raccontare altro. 

Come vedete la carne al fuoco (ovvero: le vittime predestinate) è già parecchia e comunque abbastanza per tenerci compagnia fino alla fine. Potrei a questo punto anche rivelare il finale, visto che il trailer ufficiale, in maniera piuttosto goffa, aveva già provveduto a mostrarlo per intero. Non lo farò, ma mi limiterò a riportare le ultime parole: “la maledizione non può essere fermata, Kayako ucciderà sempre e il suo rancore non farà che crescere e rafforzarsi”. Se questo è il presupposto, temo ci aspetteranno molti altri capitoli negli anni a venire. 
A conti fatti non c’è niente di veramente nuovo in questi ultimi due Ju-On. C’è stato, questo è innegabile, un tentativo di riscrivere le origini della maledizione, ma tutto il resto è rimasto pressoché invariato. Kayako passa la maggior parte del suo tempo strisciando ossessivamente avanti e indietro, Toshio continua a materializzarsi negli armadi e sotto le scrivanie, le vittime continuano a congelarsi nel momento in cui invece dovrebbero iniziare a correre. 
Dopo dodici film non c’è ormai più nulla che possa sorprendere lo spettatore, anche perché il giochino è ormai chiaro: chiunque entri anche lontanamente in contatto con la maledizione (il che significa anche avere la sfiga di essere parenti o vicini di casa di chi è coinvolto in prima persona) è destinato a morire male. Non solo, ma anche i metodi che Kayako e Toshio utilizzano per portarsi via le loro vittime sono replicati all’infinito (la celebre scena della mano fra i capelli sotto la doccia o la scena di Kayako che sbuca da sotto le lenzuola, giusto per fare due esempi, sono implacabilmente presenti anche in questi ultimi capitoli). 
Ma il problema semmai è un altro: con il passare del tempo (e dei capitoli) Ju-On ha quasi completamente abbandonato quella particolare atmosfera delle origini. Non saprei dire come e quando ciò possa essere successo, ma è certo che andando oggi a riguardare il primo film, o semplicemente andando a rileggere il relativo post, che ho pubblicato di recente, la differenza è evidente.



Il presente articolo è parte di un vasto progetto che ho voluto chiamare Hyakumonogatari Kaidankai (A Gathering of One Hundred Supernatural Tales) in onore di un vecchio gioco popolare risalente al Giappone del periodo Edo (1603-1868) e, di  tale progetto,  esso rappresenta la parte 51 in un totale di 100.
Se volete saperne di più vi invito innanzitutto a leggere l'articolo introduttivo e a visitare la pagina statica dedicata, nella quale potrete trovare l'elenco completo degli articoli sinora pubblicati. L'articolo è inoltre parte del progetto "Ju-On, speciale rancore" che è iniziato qui lo scorso 7 settembre. Buona lettura! P.S.: Possiamo spegnere la 51° candela...

domenica 16 ottobre 2022

Wii, che paura!

"Il motivo per cui Ju-On è così popolare è che fa paura. Fa paura in tutto il mondo.” (Takashige Ichise, produttore) 

Il 15 aprile 2009 si è tenuta a Tokyo una conferenza stampa per illustrare il progetto "Ju-on 2009”. Ai microfoni l’onnipresente Takashi Shimizu, i registi di "Ju-On: White Ghost" e "Ju-On: Black Ghost" e alcuni membri del cast. Assieme a loro il produttore esecutivo Takashige Ichise, un nome a cui noi appassioni di J-horror dovremmo essere per sempre riconoscenti, avendo lui a curriculum tutta la serie “Ju-On”, tutta la serie “Ring”, e capolavori e titoli sparsi come “Dark Water” (Hideo Nakata, 2002), “Infection” (Masayuki Ochiai, 2004), “Premonition” (Norio Tsuruta, 2004), “Reincarnation” (Takashi Shimizu, 2005), “Noroi the curse” (Kôji Shiraishi, 2005), “Apparition” (Hideo Nakata, 2007) e “Shutter” (Masayuki Ochiai, 2008). 
L’occasione era ovviamente quella di presentare al pubblico i due film che avrebbero dovuto celebrare in pompa magna il decennale del franchise. Le cose che i giornalisti si sentono raccontare in queste conferenze sono il più delle volte banalità: “Ho cercato di creare il mio Ju-on avendo bene in mente che stavo lavorando ad un'opera horror che rappresenta tutto il Giappone” (Ryuta Miyake, regista); “Ho avuto paura e ho pianto quando ho letto la sceneggiatura per la prima volta. Ho pensato: non posso farlo" (Akina Minami, attrice); “Sono onorato di poter partecipare alla serie Ju-on. Il risultato finale è piuttosto spaventoso" (Hiroki Suzuki, attore); “Sono sempre stato un grande fan della serie, e quando mi hanno proposto di realizzare un nuovo capitolo ho deciso di trasformare un fantasma bianco in uno più personale, completamente nero” (Mari Asato, regista). 

mercoledì 12 ottobre 2022

Black Ghost, White Ghost

Black Ghost
Dopo quattro film giapponesi tutti praticamente uguali l’uno all’altro, e altri tre film americani ancora più uguali dei precedenti (se non per la deriva di questi ultimi negli abissi del trash), il franchise mostra inequivocabili i segni dell’età. In un mondo ideale, nel quale si fa solo ciò che ha un senso fare, la serie sarebbe terminata almeno cinque anni prima, subito dopo il primo remake hollywoodiano a fungere simbolicamente da pietra tombale. Ma il mondo in cui viviamo è tutt’altro che ideale, e per quanto una salma venga interrata in profondità ci sarà sempre qualcuno disposto a spellarsi le mani per riesumarla, casomai fosse rimasto un grammo di carne marciulenta su un ossicino. 
Sul finire di quel decennio, noi qui in Occidente eravamo ormai convinti di esserci lasciati definitivamente alle spalle Kayako, e assieme a lei tutto il J-horror in blocco. Solo uno sparuto manipolo di appassionati continuava a scribacchiarne sui blog, pur senza troppa convinzione, per ricordare i bei tempi andati. D’altra parte, lo stesso Shimizu si era lasciato questa storia alle spalle ormai da un bel po’, e nel frattempo aveva anche messo in archivio “Marebito” (2004), la storia di un cameraman freelance che indaga su certi spiriti misteriosi che infesterebbero le metropolitane di Tokyo, e “Reincarnation” (2005), la storia di una troupe cinematografica al lavoro in un hotel che fu un tempo teatro di una serie di omicidi. 

sabato 8 ottobre 2022

Yotsuya Kaidan

Lo stereotipo della donna fantasma vendicatrice vestita di bianco e con i capelli arruffati si è sviluppato durante il periodo Edo del Giappone (1603-1868), un periodo caratterizzato da una vivace cultura popolare. Questi revenant fecero la loro apparizione nei libri illustrati, sui palcoscenici, nei giochi di carte e nelle tradizioni orali del periodo. Sebbene i fantasmi femminili fossero esistiti in precedenza in Giappone, in particolare in letteratura e nel teatro Nō, fu durante il periodo Edo che si sviluppò il loro aspetto classico e il personaggio divenne una misteriosa icona pop premoderna. 
Il più famoso di questi fantasmi Edo è Oiwa, protagonista della commedia “Tōkaidō Yotsuya Kaidan” (Ghost Story of Yotsuya, 1825) del drammaturgo kabuki classico Namboku Tsuruya IV (1755-1839), noto per le sue opere a tema soprannaturale e i suoi personaggi macabri e grotteschi. In italiano il titolo potrebbe essere reso letteralmente come “Storia di fantasmi a Yotsuya, lungo il Tōkaidō”, dal nome del quartiere di Edo (l'antico nome dell'odierna Tokyo) in cui le vicende sono ambientate. 
Messo in scena per la prima volta, come dicevamo poc’anzi, nel luglio del 1825, Yotsuya Kaidan apparve al Teatro Nakamuraza di Edo in una sorta di double-bill (oggi lo chiameremo così) con il popolare dramma kabuki “Kanadehon Chushingura”, basato sul tema classico dei quarantasette ronin.

martedì 4 ottobre 2022

The Ghost of Oiwa

Shunkosai Hokushu, 1826
Non poteva mancare in questo speciale un tuffo nel grande spettacolo della tradizione giapponese, alla ricerca delle origini delle spettrali figure di Kayako e Toshio. Già a tempi del nostro speciale “Ghost in the well”, che dedicammo quattro anni fa alla fortunata saga cinematografica di “Ring”, avevamo tentato un esperimento simile, giungendo infine alla conclusione che Sadako potesse identificarsi in Okiku, un personaggio leggendario le cui gesta vengono narrate in Giappone sin dal XVIII secolo all’interno di uno spettacolo teatrale dal titolo Banchō Sarayashiki (The Dish Mansion at Banchō). La correlazione tra Sadako e Okiku non fu ai tempi un’impresa troppo ardua, per essere onesti, considerato che il tragico destino di Okiku, gettata viva in fondo a un pozzo, fu palesemente lo stesso della protagonista di “Ring”. Più difficile è, al contrario, trovare una figura che si adatti così perfettamente a Kayako, considerata l’abbondanza di spiriti vendicativi nel folclore orientale (non solo giapponese). Cerchiamo quindi di riguardarci i film di Shimizu con carta e penna a portata di mano, appuntando quelle che possiamo considerare le caratteristiche salienti dei suoi personaggi.

venerdì 30 settembre 2022

The Grudge - 1, 2 & 3

Uscito il 22 ottobre 2004 in 3.348 sale americane, The Grudge ha generato solo nel primo fine settimana un incasso di oltre 39 milioni di dollari. Vi sembrano tanti? Vi sembreranno ancora di più se pensate che la Sony Pictures ne ha sborsati solo 10 per la produzione. Ma il bello arriva la settimana successiva, con un incasso al botteghino di altri 21 milioni, incasso che ha permesso a The Grudge di spazzare via il precedente record, relativo ai soli horror, di Halloween. 
Oggi quella particolare classifica la conduce, seppur di poco, “Saw 3D” (Kevin Greutert, 2010), ma secondo questo sito, al netto degli aggiustamenti calcolati sull’inflazione, il record di The Grudge resiste ancora oggi. 
Cosa ha permesso a un remake, e per giunta al remake di un film proveniente da un paese geograficamente e culturalmente agli antipodi, di realizzare negli Stati Uniti un risultato di tale rilievo? È quello che cercheremo di capire oggi. 

lunedì 26 settembre 2022

Ju-On: the Grudge - 1 & 2

Utilizzando apparecchiature low budget, e senza fare troppo affidamento su trucchi gore grossolani, Shimizu cattura l'essenza dell'orrore con un'esecuzione registica decisamente impeccabile, facendo leva sulle atmosfere e su quel senso di terrore e disperazione che è presente, seppur latente, in situazioni quotidiane che normalmente non vengono associate all'orrore. 
Non è nemmeno necessaria l’oscurità per trasformare un ambiente in un luogo di terrore e, infatti, la maggior parte delle scene sono girate in pieno giorno. Shimizu si è rivelato inoltre un maestro nell'arte di stuzzicare lo spettatore attraverso l’utilizzo di angoli di ripresa particolarmente suggestivi, che ci invitano ad abbassare le difese e presumere che il peggio sia finito, quando in realtà il jump scare è giusto dietro l’angolo. 
È davvero sorprendente quanta paura Shimizu sia in grado di generare con così poco a sua disposizione. 

Il primo lungometraggio “Ju-On: The Grudge” sbarca nelle sale cinematografiche giapponesi nel gennaio 2003, tre mesi dopo la première allo Screamfest Horror Film Festival di Los Angeles (CA). Un secondo capitolo, “Ju-On: The Grudge 2”, lo seguirà a ruota nel mese di agosto, anch’esso dopo un primo passaggio oltre confine nel corso dell’Hamburg Fantasy Filmfest di quell’anno. 

giovedì 22 settembre 2022

L’estetica di Kayako

Acconciatura tipica del periodo Heian
Impossibile introdurre colui che ha ideato e realizzato la saga di Ju-On senza prima un cappello iniziale sullo scenario che ha portato a quel fenomeno di massa di fine anni Novanta che conosciamo come “J-Horror”. In verità l’argomento lo avevo già affrontato marginalmente in passato e, sicuro, fu in occasione dello Speciale Ghost in the Well (se la memoria non m’inganna, forse anche da qualche altra parte), per cui una nuova introduzione dovrebbe tentare un approccio diverso, meno didascalico.
Anche perché nel corso di questi ultimi vent’anni il fenomeno è stato così tante volte analizzato e sviscerato in ogni suo aspetto che chiunque oggi, in Occidente, ha ormai imparato a riconoscerne le caratteristiche, amandolo o odiandolo. È tuttavia anche vero che, se provassi a fare delle domande in giro, otterrei per un buon 90% una definizione piuttosto vaga di “film con fantasma femminile, dedito alla vendetta, con veste bianca e lunghi capelli neri spettinati”. 

domenica 18 settembre 2022

Ju-On: the Curse - 1 & 2

A curse of one who dies with strong resentment accumulates in the place where the dead were while alive and turns into "Karma". He who comes in contact with the curse loses his life, and a new curse is born. 

Ju-On usa il concetto di modularità, in cui la narrazione è costituita, appunto, da più moduli o segmenti narrativi, a ognuno dei quali è assegnato un titolo che rimanda al personaggio che ne è il protagonista principale. Tale struttura simula il formato "capitolo" del DVD, tipicamente usato dagli utenti per andare a ripescare le scene da lui ritenute più interessanti o, talvolta, per guardare lo spettacolo in modo intermittente. La maggior parte degli spettatori dell'home theater, al contrario del formato cinema in cui il prodotto viene consumato dall’inizio alla fine, apprezza particolarmente la possibilità di poter interrompere la visione in funzione delle sue necessità quotidiane, quali possono essere per esempio i pasti, e un sistema modulare gli permette di risparmiare tempo. Il formato frammentato del film Ju-On si adatta quindi perfettamente a questo tipo di utilizzatore, che è alla ricerca di un appagamento breve e immediato, soddisfatto in questo caso da ogni breve segmento isolato. Questa struttura verrà eliminata nel remake di Hollywood The Grudge, particolare, questo, che rivela il drastico cambiamento di target, puntando non più su coloro che prediligono la visione domestica, quanto su coloro che preferiscono una visione ininterrotta sul grande schermo. 

mercoledì 14 settembre 2022

Punti di rottura (Pt.2)

Proseguendo il discorso iniziato la volta scorsa, concentriamoci adesso su una quarta categoria, identica alla precedente se non per il fatto che l’elemento scatenante si risolve con la morte del soggetto. È la categoria in cui rientrano praticamente tutti i soggetti che includono un elemento soprannaturale. 

domenica 11 settembre 2022

Punti di rottura (Pt.1)

La volta scorsa abbiamo visto come odio e aggressività abbiano origine in aree distinte del cervello; ciò ci consente di saltare alla conclusione che il risentimento abbia bisogno di una molla razionale per trasformarsi in un’azione tesa a nuocere all’oggetto del nostro odio. Ma è proprio vero? Senza la pretesa di fare un lavoro che non è affatto il mio, quello dello psicopatologo, mi limiterò a giocare nel campo dell’ipotetico, andando ad analizzare alcuni casi emblematici di pura fantasia: quelli che ci ha regalato il cinema, in generale, e il genere horror in particolare. 

mercoledì 7 settembre 2022

Speciale Rancore

La morte porta il più grande mutamento che sia mai stato visto. Mentre in generale lo spirito rimosso dal corpo ritorna alla sua origine, ed a volte appare nella forma del corpo che lo portava, è successo anche che il corpo abbia camminato senza lo spirito. Questi incontri sono attestati da chi ha vissuto abbastanza da poter affermare che un cadavere, così risorto, non ha affetti naturali, né ricordi, ma solo odio. Si sa anche che alcuni spiriti che in vita erano benigni, sono divenuti maligni dopo la morte.
(Ambrose Bierce)

òdio s. m. [dal lat. odium, der. di odisse «odiare»]. – 1. Sentimento di forte e persistente avversione, per cui si desidera il male o la rovina altrui; o, più genericam., sentimento di profonda ostilità e antipatia: concepire, nutrire, covare o. contro qualcuno; portare o. a qualcuno; avere in o. qualcuno o avere qualcuno in o.; prendere in o. qualcuno, cominciare a odiarlo; essere, venire in o. a qualcuno (fig., essere in o. ai numi, alla sorte, al destino, averli nemici, essere sventurato; essere in o. a Dio e agli uomini, essere perseguitato, malvoluto da tutti); o. cieco, bestiale, feroce, accanito, mortale, implacabile; essere spinto, animato da o.; essere accecato dall’o.; 

rancóre s. m. [lat. tardo rancor -ōris, der. di rancere «essere rancido» (è quindi, propr., l’astratto di rancidus)]. – Sentimento di odio, sdegno, risentimento profondo, non manifestato apertamente, ma tenuto nascosto e quasi covato nell’animo: avere, nutrire, serbare r. contro qualcuno; il suo sordo r., a lungo nascosto e frenato, esplose improvvisamente; 

mercoledì 31 agosto 2022

Traditi dalla fretta #31

"Settembre è il mese del ripensamento" - cantava un tizio tanti anni fa - un mese in cui "ti siedi e pensi e ricominci il gioco della tua identità". Non c'è in realtà molto a cui ripensare né tanto mano qualcosa da ricominciare. Tutto è esattamente uguale a quando decisi, ormai quasi due mesi fa, di staccare la spina dalla socialità. Altre volte in passato mi era capitato di ritrovarmi dove mi trovo oggi a tirare le somme di un'estate di vacanze passata troppo in fretta, come "l'ala del tempo che la guardi ed è già lontana". 
Ma "noi si lavora, Agosto, nelle stanche tue lunghe oziose ore" e questi due mesi di silenzio sono volati come se nemmeno fossero esistiti. Ho osservato gente partire e altra gente ritornare e tutti prima o poi mi chiedevano cosa ci facessi imperterrito dietro la scrivania di un ufficio. La risposta non esiste. O meglio, non esiste una risposta che possa risultare comprensibile e condivisibile. Le ragioni sono tante, anzi è una sola, e credo che un giorno non molto lontano la risposta sarà servita lo stesso, anche se non verrà da me.
Avevo promesso che il blog avrebbe riaperto e così sto facendo oggi. Non so quanto durerà ma "quelle lunghe oziose ore", che tali non sono state, mi hanno comunque regalato piccoli sprazzi di creatività che mi hanno permesso di completare un progetto che avevo iniziato più o meno due anni fa e a cui forse avevo anche accennato. Due anni sono un'eternità rispetto ai miei standard di un tempo, ma i tempi sono cambiati e il blogger che c'era una volta non esiste più o, se esiste, è abilmente nascosto sotto strati e strati di polvere. Riprendiamo, come di consueto, con una nuova puntata di "Traditi dalla fretta" che, senza indugio alcuno, svela immediatamente le carte.

martedì 9 agosto 2022

Long Dream

We are such stuff as dreams are made on, and our little life is rounded with a sleep. (William Shakespeare, The Tempest IV.i.148–158) 

Quanto dura un sogno? Questa è la domanda che mi pongo ed è anche quella che si è posto una ventina di anni fa il mangaka Junji Ito, autore della graphic novel che è stata in seguito d’ispirazione a Higuchinsky, lo stesso regista che solo qualche mese prima aveva diretto l'adattamento di "Uzumaki" dello stesso Ito. Parleremo anche del film tra poco ma, per farlo, occorre avventurarsi in una lunga premessa1.

Non starò ad annoiarvi con barbosi concetti freudiani, quelli secondo i quali i sogni sono “una via diretta all'inconscio”, ma un po’ di roba tecnica è comunque necessaria. Tanti anni fa, agli albori del blog, ebbi modo di parlare di sogni lucidi e di scambiare commenti, non ricordo se qui o altrove, con blogger parimenti interessati all’argomento. Una delle domande più comuni, oltre alle classiche “quando si sogna” e “come faccio a capire che sto sognando”, era strettamente legata alla durata apparente di un sogno.

lunedì 4 luglio 2022

Traditi dalla fretta #30

Un po' svogliatamente, soffocato da un caldo infernale, ritorno con nuova puntata di "Traditi dalla fretta" dopo oltre tre mesi di latitanza. Sono stato poco attento, in questi ultimi tempi, alle cose che stavano succedendo in giro per l'universo letterario, cinematografico o artistico in generale. Le segnalazioni odierne, di conseguenza, sono figlie di una rapida occhiata agli appunti che mi ero preso tra la fine di marzo e l'inizio di aprile, segnalazioni che ormai non hanno più la freschezza della novità che avrebbero avuto se avessi rispettato le mie tabelle di marcia. La mia attenzione ormai è rivolta alla vita reale, fatta di spese che si fanno via via sempre meno sostenibili e con la prospettiva di un futuro ancora peggiore. 
Anche gli sguardi ai blog vicini si sono ormai rarefatti, ma nonostante ciò Obsidian Mirror pare non averne risentito molto, continuando a veleggiare alla solita media di 500 visualizzazioni al giorno, che è davvero tanta roba per un blog che, anziché occuparsi della pizza di Briatore e dei concerti degli Stones, cerca di fare cultura (oddio, che parola grossa) concentrandosi, per giunta, su argomenti ritenuti di nicchia.
Il tempo del riposo tuttavia sta arrivando e, a differenza di altri anni in cui sono stato quasi sempre presente, l'estate del 2022 vedrà Obsidian Mirror prendersi una lunga e meritata vacanza. Questo è l'ultimo post prima della pausa estiva che dovrebbe durare, a meno di stravolgimenti, fino a settembre. Ho in programma solo un rapido rientro a metà agosto per l'irrinunciabile appuntamento con la Notte Horror (ve ne parlo qui di seguito), dopodiché tornerò nell'ombra fino a quando non avrò recuperato la voglia e l'energia che mi serve. Buone vacanze a tutti!

lunedì 27 giugno 2022

Il libro di Monelle

Incontrai Monelle mentre vagavo nella pianura, e lei mi prese per mano. Non aver timore, disse, sono io e non sono io; ci ritroveremo di nuovo e ci perderemo; e un’altra volta ancora verrò in mezzo a voi. Pochi infatti mi hanno vista e nessuno mi ha capita. E tu ti dimenticherai di me e poi mi riconoscerai e ancora mi dimenticherai. E Monelle disse ancora: ti voglio parlare delle piccole prostitute e tu conoscerai il principio delle cose. (Marcel Schwob, il libro di Monelle).

Secondo la scarna pagina che gli dedica la Wikipedia italiana, Marcel Schwob fu uno "scrittore di stile innovativo" il cui nome "è ricordato fra i grandi della letteratura francese come Stéphane Mallarmé, Octave Mirbeau e André Gide". Può essere che il redattore di quella pagina abbia ritenuto conveniente sintetizzare la questione con parole abbastanza ovvie (nel senso che sono parole che potrebbero ben adattarsi a qualsiasi scrittore francese), ma la realtà è che Marcel Schwob oggi non è affatto ricordato al pari di tali autori; anzi, direi piuttosto che, perlomeno al di fuori del suo paese, non è ricordato affatto. E ciò nonostante sia ormai assodato che due grandi autori della letteratura moderna abbiano preso molto più di una semplice ispirazione da un paio di libri di Schwob: in "Mentre morivo" (1930) di William Faulkner e in "Storia universale dell'infamia" (1935) di Jorge Luis Borges è facile ritrovare i temi affrontato rispettivamente ne "La crociata dei bambini" (1896) e in "Vite immaginarie (1896)". Non solo: anche "Il libro di Monelle" (1894), argomento del post di oggi, sarebbe stato ampiamente saccheggiato da André Gide per "I nutrimenti terrestri" (1897), episodio che fece particolarmente infuriare il nostro eroe. 

lunedì 20 giugno 2022

Aspettando le cose perdute

Mentre là fuori il caldo si fa ormai soffocante e la voglia di mettersi a scrivere sul blog comincia a scemare, c'è qualcuno dalle parti di Roma che sta pensando a noi e, tra una bibita ghiacciata e una doccia gelata, nel momento esatto in cui io mi sto lamentando delle temperature sta lavorando senza sosta per realizzare una nuova interessante opera horror. 
Sto parlando ovviamente di Luigi Parisi, un ospite ormai fisso di questo blog, capace di allietare e allo stesso tempo terrorizzare innumerevoli notti di Halloween. 
Luigi Parisi, per quei pochi marziani che ancora non lo sapessero, è un regista con esperienza pluridecennale con lavori realizzati e distribuiti attraverso i principali network-broadcaster italiani ed esteri. È il regista della saga “L’Onore e il Rispetto”, venduta in oltre settanta paesi nel mondo, delle serie “Il Bello delle Donne”, premiata con il Telegatto, delle serie “Il Peccato e la Vergogna” menzionata al Roma Fiction Festival di Roma e di “Caterina e le sue Figlie”, acquistato come format in Francia. Luigi Parisi è però anche un grande appassionato di horror e, tra un successo commerciale e l'altro, si diletta, attraverso la casa di produzione Darkside Entertainment (istituita ah hoc per supportare questa sua passione), a realizzare brevi ma intensi cortometraggi in grado di competere con i grandi maestri del genere. È un grande privilegio che Parisi, da qualche anno a questa parte, abbia scelto questo piccolo blog di provincia per presentare in anteprima i suoi lavori e, se siamo qui oggi a parlarne, il motivo è esattamente quello che state immaginando: qualcosa di nuovo sta per arrivare.

lunedì 13 giugno 2022

The Shock Labyrinth

A poche settimane di distanza dal post su "Marebito", senza ombra di dubbio il punto più alto della carriera "extra-grudge" di Takashi Shimizu, torniamo con quello che a tutti gli effetti rappresenta l'espressione più bassa del suo cinema, ovvero quel "Shock Labyrinth" (2009) giunto in Italia due anni più tardi con l'opinabile titolo di "The Shock Labyrinth: Extreme 3D", forse a sottolineare il fatto che di estremo c'è il livello di noia che, mi viene da aggiungere, un imbarazzante 3D riesce ulteriormente ad amplificare. Sarà bastata sicuramente questa introduzione a convincere la maggior parte dei lettori del blog ad abbandonare la lettura; a quei pochi che sono rimasti, la mia promessa è di essere breve e di concentrarmi solo sugli aspetti più interessanti.
La trama ruota attorno a un gruppo di amici d'infanzia che condividono un tragico e oscuro segreto legato a un episodio del passato di cui pare abbiano perso tutti l'esatta memoria. L'antefatto vede il gruppo intrufolarsi in un edificio abbandonato, sito all'interno di un luna park, alla ricerca di brividi facili.

lunedì 6 giugno 2022

Da donna a strega: madre o strega

L'INTRODUZIONE SI TROVA QUI

Lascia ch’io pianga la mia cruda sorte. (Rinaldo, Georg Friedrich Händel) 

Antichrist” di Lars von Trier (2009) è uno dei miei film preferiti. I movimenti di macchina, il colore, il sonoro sottolineano benissimo i mutamenti di umore – e l’orrore – che variano e raggiungono via via nuovi livelli d’intensità, Charlotte Gainsbourg e Willem Dafoe ci regalano un'interpretazione magistrale, e si esplorano territori a me congeniali con coraggio e grande libertà. Soprattutto, questo non è solo un film ampiamente sottovalutato ma anche, secondo me, frainteso dai più. 
Antichrist” parla del dolore e del senso di colpa, certo, ma anche di qualcos’altro. Qualcosa che ha parecchio a che fare con il tema di questa serie di post, e non a caso ho deciso di affrontarlo proprio ora che, con l’articolo precedente, siamo finalmente giunti a quello che considero il nodo cruciale del discorso, ovvero l’identificazione della donna con la madre e lo squilibrio che segue la rottura di questa inevitabile equazione. Non prendete quindi questo post come una recensione del film, ma solo come una serie di pensieri sparsi che finalmente trovano uno spazio nel blog.

lunedì 30 maggio 2022

Orizzonti del reale (Pt.36)

LA PRIMA PARTE SI TROVA 
QUI

Per comprendere il ragionamento di McKenna servirebbero molti dettagli in più di quelli che finora mi è stato possibile riportare, ma se vi state chiedendo lo scopo di questa lunga dissertazione, almeno questo sono in grado di chiarirlo. Ponendosi nel solco della tradizione dell’I Ching quale strumento di divinazione, McKenna tentò di dimostrare che se il “modello d’onda” da esso generato è una teoria generale del tempo valida, dovrebbe essere possibile dimostrare perché certi periodi o luoghi sono stati particolarmente ricchi di eventi che accelerano il progresso creativo verso la novità, ma anche dove e quando tali eventi potrebbero ripresentarsi in futuro. Per far questo era però indispensabile l’ausilio di un computer. Con l’aiuto del suo amico Peter Meyer, McKenna elaborò quindi un software chiamato Timewave Zero
I calcoli sono mostrati nell’Appendice del volume, e una descrizione più accurata è fornita nel manuale del software, ma in pratica si tratta dell’applicazione di una funzione matematica definita applicando una trasformazione frattale a una funzione lineare a tratti. L'ultima funzione è un'espressione di 384 "punti dati" (valori interi positivi) derivati dalla sequenza King Wen

lunedì 23 maggio 2022

Le tue mani sul mio corpo

Sembra proprio che questa maledetta primavera del 2022 stia concentrando la propria attenzione sugli iconici protagonisti del capolavoro avatiano “La casa dalle finestre che ridono”. E non è una buona notizia. Dopo essersi portata via Gianni Cavina giusto un paio di mesi fa, la Grande Consolatrice ha preso sotto la sua ala protettrice anche Lino Capolicchio, che di quel meraviglioso film era il volto nettamente più riconoscibile. Non vi tedierò parlandovene, visto che lo ha fatto di recente, e in maniera anche piuttosto approfondita, un mio storico vicino di blog, ma dopo l’ennesimo lutto tra il cast è forse il caso di fermarsi un attimo e ricordare l’attore altoatesino in altro modo, magari risalendo ad una sua versione delle origini. Il dubbio su cui mi sono arrovellato a lungo riguardava il film sul quale puntare, ma a conti fatti Capolicchio in gioventù ha interpretato più o meno sempre la stessa parte (quella del personaggio morboso e nichilista) in film più o meno tutti uguali, per cui affidarmi al caso mi è parsa la soluzione più naturale. 
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